Dimensione. Dimensione è una parola che può essere utilizzata in un mare infinito di contesti. La dimensione parallela è quella che ricercano senza soluzione di continuità di fisici da sempre. La dimensione è quella che diamo al nostro modo di essere in un certo contesto della nostra stessa vita. La dimensione è, nella sua più rozza forma, ciò che rappresenta la grandezza fisica di un oggetto. Poi c’è la dimensione esistenziale, quella nella quale tutti ci sistemiamo per trovarci bene col mondo che gira intorno a noi. Il nostro posto, la nostra poltrona di vita. La dimensione è un fatto in tutti questi contesti, la comodità della stessa però, non lo è affatto.

 

Quando ci si trova nel bel mezzo di un luogo nel quale non si vorrebbe essere, si va via. Quando ci si trova al centro di un anticiclone emozionale stressante si cambia aria. Ma quando il nostro essere è per nostra stessa definizione in contrasto con un volere tanto grande quanto attrattivo, bisogna fare i conti col cervello, che è ben definibile a livello chimico, ma altrettanto poco definibile a livello pratico.

Chris Kanyon.

Chris Kanyon è il più famoso nome d’arte di un ragazzo laureatosi in fisioterapia all’università di Buffalo, New York, nel 1992. Il suo vero nome era Christopher Klucsarits. Christopher era un Pro Wrestler, uno di quelli che i quarant’anni non li ha superati. Uno di quelli che ha combattuto tutta la vita cercando di trovare un senso a ciò che faceva. Contrastato in maniera devastante da se stesso, schiacciato tra ciò che era e ciò che faceva. Mangiato dal desiderio di poter liberarsi di un peso, che sulla terra e nel pensiero un peso non lo dovrebbe essere. Mangiato intanto, dall’altro lato, dal desiderio di non abbandonare quel mondo che quel peso, purtroppo, non lo accettava.

Kanyon, un cognome fittizio scelto chissà per quale motivo, inconsciamente, forse, ma che tanto bene rappresentava la sua voglia di nascondersi per non sbagliare, di non attirare l’attenzione per non dover spiegare. Se ne stava nascosto in quel Kanyon, che per licenza poetica di uno che di certo poeta non è, mi permetto di continuare a scrivere in maniera errata anche solo per ricordarlo. Kanyon dal quale tirava fuori la testa soltanto per osservare se il momento era propizio. Per dare confermare a se stesso che la fuori il suo intorno non era ancora pronto. Per togliersi una forza che non voleva avere, perché utilizzare quella forza lo avrebbe potuto far capitolare.

Ci aveva provato Chris, a concedersi un minuto di libertà. Aveva provato a difendersi dalle sue stesse paure, da quelle che pensava fossero sue colpe. Come se fosse una colpa essere Gay, come se fosse una colpa avere il diritto al desiderio, all’attrazione, all’amore. “Gay è una parola che non dovrebbe esistere”, pensava, “omosessuale è una distinzione che non dovrebbe esserci”, continuava. Me lo immagino che elabora queste cose mentre nel Backstage della grande madre, la gente scherzava su di lui, sul suo fondoschiena, sulla sua virilità. Me lo immagino che spera di poter dire a tutti che vuole gli uomini, che li ama. Poi me lo immagino pensare che in realtà, come tutti, vuole le persone. Ma sa che non si può, almeno nella sua vita, non si può non distinguere.

Non è un problema di opinione pubblica, non è un problema di vergogna. E’ un problema di convivenza. Il Professional Wrestling era la sua più grande passione, il suo più grande sogno, il suo lavoro. Non riusciva ad accettare, nel suo animo doppio, che non potesse rimanere in cima alla montagna, sulla cresta dell’onda, per quello che era, per quello che rappresentava.

Ci provò Christopher, a tornare nel ghetto, a cercare di essere apprezzato per ciò che era, ma non ci riuscì. Più che per gli altri, per se stesso. Non voleva troncare quel legame con quello che era il filo conduttore della sua vita, il Wrestling, un ambiente fatto di mascolinità, muscoli, orgoglio, onore. Per questo cambiava colore ogni giorno. Ogni ora. Sentiva su di se il peso degli anni sprecati ad aspettare che le cose cambiassero, senza vedere mai niente di nuovo, niente di umano. Mascherò se stesso dietro una richiesta di pubblicità, ma dovette scoprirsi un’altra volta, ben presto. Come un’ape che difende il suo nido a costo della morte, alla fine l’istinto del suo io trionfò, costandogli la vita.

Punse forte i suoi aggressori, cercò di resistere, ma il processo era cominciato. La morte stava arrivando, era soltanto una questione di tempo. Morì, inesorabilmente solo, il 2 Aprile del 2010.

Ha provato in tutti i modi a incastrare i suoi mondi paralleli, a trovare la sua dimensione, ma non ce l’ha fatta. Provò dietro una maschera a uscire dal Kanyon, ma dovette rientrarci presto. Provò a dire la verità, ma dovette ritrattare. Alla fine, dovette colpire. Colpì però talmente forte da farsi troppo male, dopo tanti colpi andati a vuoto e tante corse all’ospedale, l’ultimo pugno, il più duro, il più diretto, lo fece soccombere.

Forse, se avesse aspettato qualche anno, avrebbe trovato in Darren Young la forza necessaria per aprire al mondo il suo stato d’animo. Forse, se avesse potuto anche lui avvalersi del suo grande amico fraterno, Diamond Dallas Page, il suo bipolarismo se ne sarebbe rimasto chiuso nell’angolo più buio di quel cervello tanto chimico quanto poco pratico. Forse, se avesse avuto un briciolo di forza in più, quel Kanyon lo avrebbe addirittura chiuso, quella maschera l’avrebbe buttata via e serenamente, accettato e ammirato, avrebbe potuto stare accanto alla persona giusta, all’uomo giusto, mentre saliva sul Ring a testa alta senza essere costretto a vedere sugli schermi Billy e Chuck, riflesso, dolorosissimo, della parodia di se stesso.

Direttore di Zona Wrestling. Appassionato di vecchia data, una vita a rincorrere il Pro Wrestling, dal lontano 1990. Studioso della disciplina e della sua storia. Scrive su Zona Wrestling dal 2009, con articoli di ogni genere, storia, Preview, Review, Radio Show, attualità e all'occasione Report e News, dei quali ha fatto incetta nei primi anni su queste pagine. Segue da molti anni Major ed Indy americane e non.