Dean Ambrose, Seth Rollins e Roman Reigns. I tre ex membri dello Shield, a ragione o a torto, sembrano essere tre delle colonne su cui dovrà necessariamente appoggiarsi la WWE del futuro. A distanza di sei mesi dallo split, come può essere descritto il loro status? Più sconvolgente di un annuncio di Dixie Carter, ecco a voi l’editoriale odierno.

Una landa desolata con qualche punto di oasi verdeggiante. Guardando il roster della WWE dall’alto della nostra tribuna privilegiata, non possiamo non scorgere una preoccupante penuria di personaggi “over”, ed un ancor più preoccupante mancato passaggio generazionale, che costringe non solo John Cena a mantenere ben salda la torcia da tedoforo, ma anche i vari Kane e Big Show ad occupare lo stesso spazio di midcarding abbracciato da una decade e mezzo. La luce alla fine del tunnel, tuttavia, c’è.

Ed è una sfavillante luce gialla e nera. Come detto a più riprese da un coro variegato di voci, me compreso, NXT è una parentesi di freschezza in un lungo paragrafo stantìo, fatto di gimmick match non graditi e non richiesti, e tanti (troppi) 6 man tag team match sciorinati settimanalmente in modo random tra l’indifferenza generale. NXT R-Evolution ha portato con se non solo un nome improponibile nella sua bruttezza, ma anche e soprattutto del buon vecchio wrestling “old school”: uno show godibile con una serie di incontri ottimamente lottati, un main event coi fiocchi, il tutto arricchito dal fattore storyline oramai pressoché inesistente nel main roster, dove le 5 ore settimanali dovrebbero essere più che bastevoli per mettere su storie in grado di coinvolgere il pubblico almeno un po’.

Proprio allo special event di NXT vi è stato un segmento tanto stonato quanto fuori posto: l’intervista di Roman Reigns. E non ho gradito il segmento non perché lo stesso Reigns sia talmente scriptato da far sembrare il primo Randy Orton un novello Roddy Piper in crisi mistica, o perché la sua mimica facciale da duro contenga una comicità involontaria che non posso assolutamente reprimere né ignorare: non gradisco il fatto che il mio libero arbitrio venga così palesemente e goffamente manipolato, imponendomi di riconoscere un wrestler che giudico buono ma non eccezionale come prossimo Messia della WWE.

Roman Reigns is OUR GUY. Now it’s gonna be THE GUY. Get used to it.”

Queste parole virgolettate, tanto credibili quanto totalmente partorite dalla mia testa, mi rimbombano nei timpani ogni volta che Reigns appare sul mio schermo. Ogni volta che viene protetto in qualsiasi scenario. Ogni volta che viene anteposto a persone che meritano eguali chances di emergere, ma che non hanno “quel” look che tanto piace e tanto attrae. Senza contare che Reigns ha qualcosa che i vari Ambrose, Rollins, Cesaro e Bryan non anno: il non essere mai stato “macchiato” da acque estranee a quelle di Stanford. Il buon Roman, al pari di Cena, è a tutti gli effetti il frutto spontaneo del territorio di sviluppo WWE, che pur attingendo a piene mani dal territorio indy, ha mantenuto un minimo di spocchiosità legata alle origini dei propri talenti, pur essendo decisamente più aperta rispetto a soli tre anni fa.

Roman Reigns ha indubbie doti legate al suo carisma fisico, al suo set di mosse estremamente facili da eseguire ma dettate da un ottimo tempismo e possiede una buona presenza scenica. Tuttavia lo stesso atleta ha anche delle palesi lacune di tipo microfonico, mimico ed in ring: quelle rare volte che i suoi match in singolo hanno superato i 5 minuti, si è spesso scesi nel territorio scosceso della mediocrità. Mentre ogni volta che fa un promo…beh, diciamo che la mediocrità diventa un vero miraggio a cui tendere. La sensazione che traspare quando vedo il modo in cui è stato bookato (compresa la vittoria della Superstar of The Year, diamine) è quella che la WWE sia totalmente presa da un unico, ingombrante pensiero: la necessità assoluta di non sbagliare. Cena ha un’età non più verdissima, acciacchi notevoli ed un quantitativo indecente di dollaroni: realisticamente non credo che ci si possa aspettare più di altri due o tre anni al vertice per il John nazionale, dunque la WWE ha necessità di capitalizzare l’enorme sacrificio di Undertaker, sperando che chiunque vincerà il Titolo contro Lesnar a WM 31 sia in grado, per una capacità transitiva assolutamente non comprovata, di ergersi come nuovo volto della federazione. E ci sono pochi dubbi sul fatto che questo volto, almeno teoricamente, dovrebbe essere quello del Samoano. Diverso il discorso, invece, per Rollins ed Ambrose.

Il primo è in una condizione decisamente migliore rispetto al secondo, e porta ancora a spasso una valigetta che, spesso, è stata una sanatoria a posteriori per un booking rivedibile affidato ai suoi predecessori. Personalmente lo vedo un po’ come il nuovo Jericho: un talento in-ring come pochi, capace di far ben figurare pressochè chiunque ed utilizzabile, un domani, nella zona medio alta della card in qualsiasi momento dell’anno. Tuttavia il suo essere heel, inizialmente abbastanza spontaneo, sta diventando a mio avviso decisamente troppo artificiale, ed i suoi continui riferimenti sull’essere l’indiscusso futuro della federazione mi ricordano terribilmente i promo di Del Rio, sul destino e sui “little chihuaha”: buoni per il primo anno, devastanti mentalmente a partire dal tredicesimo mese. Nel suo destino da heel (spero non lunghissimo), in ogni caso, probabilmente c’è una faida proprio con Reigns, in quanto la resa dei conti tra i due è bel lungi dall’essere sciolta, e credo che la cosa sia fortemente voluta.

Discorso diverso per Ambrose. Innanzitutto chi si occupa del suo merchandise dovrebbe sapere che la A di Anarchia, così in voga dal 1999 al 2003, ha fatto il suo corso come logo figo ed utilizzabile nel 2014 al pari dei pinocchietti a mezzostinco o della catena attaccata al portafogli. In subordine, il successo del suo essere babyface, come ampiamente previsto, è legato a doppio filo alla storyline che lo vede come “vendicatore” del tradimento perpetrato dall’ex fratello Rollins. Il feud con Bray Wyatt è, a mio avviso, totalmente inconcludente: non si è ancora capito il perché dell’inizio della faida, ancor meno il perché della sua prosecuzione condita da ologrammi, schermi con prese esplosive  quant’altro. A proposito: l’ordine dei match deciso per TLC è una delle cose più illogiche dell’ultimo periodo, complice il finale assurdamente ridicolo del match tra Ambrose e Wyatt ed il ritorno a sorpresa di Reigns, relegato a metà card.

Morale della favola: tutti e tre gli ex membri dello Shield hanno le potenzialità per ben figurare, ma ho seri dubbi sulla loro gestione attuale, figuriamoci su quella futura. Una cosa è però certa: se la WWE continuerà imperterrita sulla decisione di propinare nonostante tutto e tutti Reigns come fusion tramite orecchini potara tra Austin e  the Rock il tutto risulterà come imposizione, ed il prossimo “the man” potrebbe non essere percepito dal pubblico come tale, vanificando il tempo e gli sforzi impiegati dagli addetti ai lavori e di noi fan.

Danilo