Da quando sono un bambino, il nome di Jim Neidhart è uno di quelli più frequenti, più ripetuti. I primi Show che vidi non lo ricordano, perché troppo piccolo ero io, per ricordare esattamente quali guerrieri del quadrato mi fecero innamorare della disciplina. Il suo nome era sempre ricorrente però qualche anno dopo, quando nell’ombra di Bret Hart, il suo ricordo era continuamente portato a galla. Bret Hart però era il campione, o lottava per diventarlo, mentre lui era già passato oltre.

 

Jim Neidhart non aveva la stoffa del campione assoluto. Non aveva la stoffa per diventare un nome indimenticabile, per questo ben presto, fu dimenticato. Dopo le esperienze in Giappone e nella ECW, tornò in una WWE cambiata, pronta a un nuovo lancio, a un nuovo vestito. Anche stavolta, come l’ultima, dovette accontentarsi di essere una “spalla” di Bret Hart, dell’intera Hart Foundation, quella nuova, rigenerata.

Ancora una volta non aveva la stoffa per diventare campione, per diventare un non dimenticabile. Purtroppo per lui non ce la farà mai, dal Football americano al Wrestling, Jimmy, sarà sempre e solo un gregario, un ingranaggio della macchina che porta al successo soltanto alcuni, soltanto i più esclusivi.

La sua storia però è importante, come quella di tanti, perché riporta alla luce i problemi  che il Professional Wrestling può lasciare sui suoi protagonisti. Quando sei uno sportivo, quando questo sport ti tradisce e decidi di fare qualcos’altro, mettendoci anima e corpo, quel mestiere che ti sei scelto è, e sarà per sempre, l’unica cosa che saprai fare.

Dalla Stampede Wrestling, alla WWF. Dalla NJPW al ritorno a Stamford. Jim Neidhart ha sempre fatto solo Wrestling. Vissuto dentro una famiglia che faceva Wrestling. Sposato la figlia di un “signore” del Wrestling. Generato una figlia che fa Wrestling. Ricordato per aver fatto Wrestling. Quando anche questo gioco si è rotto, non gli è rimasto nulla.

Il corpo, fisiologicamente esausto, ha deciso di tirare i remi in barca, lasciandogli giusto qualche cartuccia pronta a fare cilecca, quelle che la sorte ironicamente ti concede per darti oltre al danno, anche la beffa, quella della brutta figura. Alla fine, con tanti debiti, si è ritrovato con una figlia che distruggeva giorno dopo giorno il suo orgoglio pagando i suoi conti, mentre gli riempiva il cuore di un altro orgoglio, questa volta integro, ogni qual volta saliva sul quadrato. Si è ritrovato a dover prendere parte a un reality show per poter andare avanti, lui che aveva vissuto una vita sulla strada, senza paura del suo capo, senza paura dei peggiori locali nelle peggiori statali degli Stati Uniti d’America.

Il Wrestling gioca sporco, ormai lo sappiamo, ma i Wrestler dovrebbero imparare a metterlo in riga. Qualcuno ci riesce, qualcuno che si rende conto che la giovinezza non è eterna, che prima o poi, se non diventi Hulk Hogan, Ric Flair o Undertaker, qualcos’altro dovrai fare al momento del tuo ritiro, perché il ritiro avverrà, se non vuoi finire collassato in ogni spogliatoio di ogni Arena possibile e immaginabile. Però è difficile. E’ difficile combattere le lacrime, quelle lacrime che significano la fine di un’era, di un ciclo, di una carriera. Lacrime che significano la fine dei viaggi, degli spostamenti, dell’attimo prima del Match, della doccia seguente, del ritorno a casa alle 3 di notte.

E allora ci si sbaglia. Si va avanti, si continua come se nulla fosse. Non si pensa al futuro, si pensa solo al presente e si vive nel passato, consumandosi l’anima senza rendersene conto. Tutto il resto, l’alcol e le paranoie, che ti ricordano chi sei, chi non sei più e chi vorresti essere, mordicchiano  una candela che se brucia da entrambi i lati, dura la metà del tempo.

Il lascito di Jim Neidhart è una carriera appiccicata a quella dei cognati, dove la sua immagine e sempre dietro, sempre di lato, sempre a metà. Noi però siamo accaniti, siamo adulatori veri di questo mondo e almeno noi, se non la massa, dobbiamo ricordarci di tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno provveduto al nostro sollazzo, morendo 10, 20, 30 o 40 anni prima del dovuto, senza troppe colpe, senza troppe mancanze, se non quella di non aver capito.

Natalya Neidhart è oggi la bandiera più importante che resta alla sua famiglia, ed è stata generata e forgiata da suo padre Jim, uno che comunque sia, ha capito quale fosse la strada per chi gli stava accanto, questo almeno, dobbiamo riconoscerglielo.

In effetti, alla fine dei conti, dobbiamo anche riconoscergli decine di Match, di Promo, risate e incredibili dimostrazioni di forza, che seppur arrivate sempre a lato della sua metà più luminosa, hanno messo mattoni e cemento, sul muro rosa che per sempre rimarrà nella storia del Professional Wrestling, perché Jim Neidhart racconta la storia di Jim Neidhart, ma racconta anche la storia della Hart Foundation, della sua famiglia, della sua leggenda.

Riposa in pace Jim, te lo meriti.