Crown Jewel in terra araba è agli archivi, con i suoi match e le sue rivalità. Ora l’intero internet è impegnato a fare le pulci alle contese viste, e ad effettuare disamine “chirurgiche” alle scelte narrative adottate durante il PLE tenuto in Riad, lo scorso 2 Novembre. Qui, soprassediamo per una volta ai giudizi di valore, e tentiamo di capire, più che cosa abbiamo visto, il perché lo abbiamo visto. Il PLE è stato godibile, un pelino meno divertente degli scorsi, ma comunque uno show gradevole. Alcuni risultati mi hanno stupito, alcuni match mi hanno esaltato, altri invece non molto. Un plauso all’impegno generale, e alla voglia di esibirsi al massimo di ogni atleta coinvolto. Ma ciò che traspare, più di ogni altra cosa, è la voglia della WWE di rendere “serio” tutto ciò che fa. E questo non può che essere un bene per il wrestling in generale.
La gestione di MacMahon, soprattutto negli ultimi anni, è mancata in questo: I personaggi e le loro storie venivano proposti in maniera “cartoonesca”, da film della Marvel, delegando allo sforzo mentale dei fan l’impresa di superare il pressappochismo con cui molti show venivano messi in piedi. Il wrestling in sé, come anche i wrestler stessi, erano messi in secondo piano rispetto al risultato da ottenere, e cioè, espedienti attraverso i quali raggiungere lo share televisivo e la vendita di merchandising. In questa equazione, tutto doveva sottostare alla logica del marketing, persino lo spirito intimo della disciplina, sacrificando il buon nome del wrestling sull’altare della Pubblicità. Ciò che ci veniva dato era puro intrattenimento, e non più wrestling. Un programma televisivo a puntate settimanali che “usava” il wrestling come specchietto per le allodole. Una strategia di marketing vincente, sì, ma che aveva le sue cadute di stile e i suoi momenti di cattivo gusto (lo zombie match Backlash 2021 per promuovere Army of Dead in uscita quello stesso anno, ad esempio). E, se i numeri raggiunti sono questi, hanno avuto ragione a farlo. Tuttavia il pubblico ha iniziato a mostrare insofferenza per questa dinamica, e la nascita della AEW è stata propiziatoria in questo; Una grossa fetta si è spostata su quel prodotto che, sin da subito, ha vantato di mettere al centro dei suoi programmi il wrestling puro. I fan, lo share, la vendita di biglietti, sarebbe stata una diretta conseguenza della qualità dei suoi show, invertendo il rapporto di sudditanza della disciplina che Vince ha contribuito a saldare in questo ultimo decennio.
La WWE, che non è proprio l’ultima arrivata, ha forse capito l’antifona: La scelta di evadere dalla TV PG, e di togliere la censura alla parola wrestling, insieme ad altre novità apportate agli show settimanali, è ritornata a valorizzare il lottato sul ring. I wrestler si sono ripresi il loro primato, e il wrestling (con le sue vittorie e sconfitte, il suo storytelling, la sua magìa) è tornato ad essere il cardine della proposta televisiva. Non che questa nuova WWE non badi al marketing, alla pubblicità e alla collaborazione con altre entità promozionali, ma ne ridimensiona forse il ruolo nel suo contenitore, lasciando, meritatamente, gran parte dello spazio al wrestling stesso. La scelta del cerimoniale post-Main Event di Crown Jewel, esaltando la vittoria sul quadrato di Morgan e Cody, con tanto di anello commemorativo e cintura tempestata di diamanti, è stata una esaltazione della disciplina. Un voler mettere al centro dei riflettori i lottatori e le loro conquiste, senza marketing inutile o collaborazioni fuori luogo. Il wrestling ha vinto, e lo ha fatto grazie a se stesso. Non è un sistema autopoietico, non si reggerà mai da solo. Avrà sempre bisogno di farsi pubblicità, anche ricorrendo a agenti esterni. Ma finché non ne sarà più subalterno, allora il wrestling della WWE ne uscirà vincitore. Anche contro la concorrenza.