Cala il sipario sui War Games di Survivor Series. L’evento è stata la sede della resa dei conti tra il Team Roman e il Team Solo, vinta dai primi dopo il seppellimento di Solo che ha subito, a turno, le finishers di tutti i Face. Durante la serata abbiamo potuto apprezzare il ritorno di Rhea Ripley e del suo starpower che, da solo, ha riabilitato una contesa fino al suo ingresso un po’ statica e scoordinata. Gunther ha battuto per la seconda volta Priest, e per la seconda volta consecutiva grazie all’aiuto di Balor. Anche se la WWE sembra voler lasciare aperta la porta ad un loro terzo confronto, spero che questo non abbia mai luogo, e che la loro faida si concluda, per ora, con la sconfitta del portoricano. Per Gunther non è il momento giusto per perdere il titolo, e Priest non è l’avversario opportuno. Una terza futura sconfitta di Damien, inoltre, rischierebbe di svalutarlo in maniera importante agli occhi dei fan, perché tre volte sconfitto in match titolati. E specificatamente la seconda, quella di sabato scorso, per quanto si voglia attribuire all’interferenza di Balor, è arrivata in maniera quasi del tutto pulita. È difficile credere che una Coup de Grace, in un momento in cui Gunther aveva preso in mano le redini dell’incontro, possa essere stata la causa della sconfitta. Avrà di certo aiutato, ma non è stata decisiva. Perlomeno in chiave mark.
Giungiamo ora ad esaminare l’incontro che più di tutti mi ha stupito, sia per la scelta di inserirlo nel PLE, sia per il suo esito: LA Kinght vs Shinsuke Nakamura. Il match metteva in palio il titolo statunitense, e ciò dopo due settimane di aggressioni di Nakamura ai danni del campione. In due settimane si è riusciti a rendere Knight incerto, scosso dagli attacchi improvvisi del nipponico e inusualmente teso in vista del loro scontro. Il pathos dell’incontro dunque si avvertiva, superando di fatto l’iniziale scetticismo di chi lo ha visto inserito all’ultimo momento nella card di uno dei Big Four dell’anno, essendoci abituati ad una scelta degli incontri per gli eventi mensili più ponderata, e con una costruzione narrativa più longeva. Il match in sé è stato normale, con il nipponico che, stando alle mie prime impressioni, mi è sembrato meno elastico del solito. Quest’ultimo si è presentato sullo stage con una musica d’ingresso più cupa, in abiti cerimoniali giapponesi e un ring attire meno colorito del solito. La sua stessa personalità sembra essere stravolta da un malessere interiore, una avversione viscerale per chiunque. Un Nakamura quindi meno affabile e emotivo del solito.
Il modo in cui è stato rivisitato il suo personaggio mi piace, come apprezzo anche i video stile manga in cui lancia messaggi caustici agli avversari nelle puntate settimanali. Non ho mai trovato eccitante il suo modo di interagire col pubblico, come anche la sua indole rock. Non lo presentavano mai, nonostante ne avesse tutte le qualità, come un avversario serio e temibile agli occhi dei fan. Era diventato una sorta di “macchietta” del sol levante, il cui unico pregio era avere una theme song stupenda. Il suo stile sul ring non è dei più dinamici, fatto perlopiù di fasi di attacco con le lunghe leve e di mosse rapide e incisive. Il suo personaggio aveva bisogno di rispecchiare tale attitudine, e quella del giapponese tenebroso, capace di aggressioni improvvise e devastanti, sembra essere quella più congeniale. Mi spiace solo che sia arrivata così in ritardo, considerata l’età anagrafica e la già lunga carriera alle spalle del wrestler. La sua vittoria del titolo l’avrei scongiurata fino al giorno prima. Ma ora, dopo aver considerato l’intero contesto e le possibili evoluzioni positive della sua carriera con questa nuova immagine, non posso che essere speranzoso. Ben venga dunque la cintura statunitense. Ma, a differenza di quello che hanno sostenuto molti, tale trofeo arriva come atto propiziatorio per il suo futuro, più che per quanto di buono fatto da Nakamura in passato.