Seguo il wrestling dal 1990. Avevo una paura matta di The Undertaker, non impazzivo per Hulk Hogan ma se si presentava Bret Hart allora ero felice. Ricordo che le card degli show si costruivano in due modi, in base all’utilità e alle richieste di ciascun luogo. Gli house show ad esempio vedevano spesso il campione del mondo impegnato a metà e nel main event i tag team, sinonimo di maggiore spettacolarità.
Il secondo modo era quello classico: il campione nel main event. Sempre e comunque. E abbiamo continuato a vedere gli show in questa seconda ottica: che fosse un match o un segmento parlato, il campione deve chiudere uno spettacolo e mandare a casa i fan felici o sorpresi (positivamente o negativamente) da ciò che hanno appena visto. Hulk Hogan e Ric Flair, ma anche Steve Austin e The Rock e Triple H hanno rappresentato questo passaggio, con i tempi televisivi che hanno richiesto uno ripensamento della metà della card per strizzare l’occhio all’opener.
Una critica continua che la All Elite Wrestling si porta dietro è che i campioni non siano adeguatamente mostrati. Da Adam Page a Jon Moxley infatti la situazione non è cambiata: entrambi sono stati inseriti in parti degli show dove rischiano un po’ di perdersi nel mucchio. Perché passino i bei match, passi qualche confronto, ma il focus di Dynamite non sono stati loro. Per questo il regno di Hangman, seppur ben gestito, non ha convinto i fan.
Il rischio è lo stesso che sta correndo Moxley. Che non ha avversari diretti, spazia nella card, ha dei main event ma non sembra davvero lui il fulcro dello show. Quello che deve evitare la AEW è un effetto minimizzante per cui un regno non tira se non è posizionato bene. Perché volenti o nolenti, tutti i fan di wrestling sono stati abituati in una certa maniera. Educarli dopo 30 anni in un altro modo diventa poi complicato.