La morte di Scott Hall è stata una metafora del lato più oscuro della sua vita.
Quando vivi solo nella paura di non riemergere più dalla fossa nella quale sei caduto e tuoi incubi peggiori si materializzano davanti a te. Giorni steso per terra con un’anca rotta a chiedere aiuto al niente, mentre pian piano tutto si spegne, mentre intorno tutto sfuma.
La sua vita è stata la stessa cosa.
Essere circondato da centinaia di persone non l’ha mai aiutato a non sentirsi solo, e quella paura, quel buco, non ha mai potuto riempirlo con qualcosa che non annebbiasse la sua percezione del mondo, ficcandolo in un vortice nel quale si sono materializzati, ogni giorno della sua vita da Superstar, i peggiori incubi della sua vita. Alla fine, proprio come nella sua morte, anche nella sua vita è rimasto solo a chiedere aiuto al niente, mentre tutto intorno si spegneva, mentre tutto sfumava.
Proprio come nella sua vita, a risollevarlo è stato Diamond Dallas Page. Proprio come nella sua vita, anche nella sua morte sono state le mani dell’amico a cercare di trarlo in salvo. La prima volta ci ha provato con un quasi successo, la seconda anche. Il destino però, scritto oppure no, fa scherzi strani. Hall è caduto un’altra volta nella fossa, isolato da una pandemia che proprio come a lui ha isolato migliaia di persone. Poi, le sue ossa, l’hanno isolato dall’aiuto, da una mano pronta.
La morte di Scott Hall è stata la metafora del lato più oscuro della sua vita.
Potrei stare delle ore, come fatto in passato, a pensare che cosa davvero sia stato il vero motivo del declino, e come sempre finirei a rispondermi che un vero motivo forse non c’è. Forse, indipendentemente da ciò che possediamo o siamo, il problema è che siamo fatti cosi, che lui era fatto cosi e non c’era modo per porvi rimedio. Nemmeno un figlio, nemmeno un secondo figlio, nemmeno migliaia di persone che urlano per te, nemmeno l’oro.
Chi avrebbe mai detto, quando qualcuno decise di dargli quella Gimmick e quella manovra finale, la Razor’s Edge, che anche questa sarebbe stata una metafora? Più di tutti, Hall, ha impersonato nella vita il destino dei suoi avversari, che erano sempre, sul Ring con lui, sul filo di un rasoio. Ironia della sorte, si potrebbe dire, nero e appiccicoso veleno uscito dalla bile del diavolo, dico io.
Celebrare la sua prematura scomparsa, per la maggior parte delle persone, è un po’ come arrivare a un punto che si vedeva all’orizzonte, che sembra vicino perché lo si vede, ma che in realtà ci mette u po’ ad arrivare. Il problema, però, è che alla fine arriva, e crescendo e imparando quanto il tempo corra veloce, diventa una pessima abitudine rendersi conto che si è arrivati a destinazione, perché era scontato che succedesse.
La morte di Scott Hall è stata talmente scontata per talmente tanti anni, che ormai nessuno se ne preoccupava, per tutti, ogni giorno in più su questa terra del “Chico”, era un giorno guadagnato, non più la normale prosecuzione della sua vita. Questo ha aiutato a farlo sentire solo, rinchiuso in un tempo che non gli apparteneva perché in debito con la vita. Ha aiutato a farlo morire.
Me lo ricorderò per sempre, con l’intensità con la quale non ricorderò a nessun altro. Razor Ramon è stato il primo Wrestler che ho letteralmente amato, quando la mente mi ha permesso di cominciare a capire ciò che aveva di fronte quando stavo incollato alla TV. Non c’era Warlord, Hulk Hogan, Ultimate Warrior o Shawn Michaels che tenesse. C’era soltanto Razor Ramon, visto più che altro in incontri dominati o in fermi immagine di PPV. Il campione intercontinentale. L’acerrimo nemico di I.R.S. L’uomo dalle catene d’oro.
Lo amo e lo odio, perché l’ho amato e l’ho odiato. Per il suo talento e per le sofferenze che si è procurato, per la sua stella e per il suo buco nero. Perché in fondo, dentro di noi, siamo tutti un po’ ciò che amiamo e soprattutto, siamo tutti un po’ ciò che odiamo.