Il Purosesu non è wrestling. Quello che accade in Giappone è qualcosa di unico, completamente diverso dal prodotto offerto in America o in Messico. L’intensità, il dolore, le emozioni regnano sovrane all’interno del ring, e sono storie come questa, che possono far capire, anche a chi non conosce nulla di una compagnia come la New Japan Pro Wrestling, quanto sia fuori dal mondo un match come questo.

Tutto inizia nei primi anni 2000. Al comando della NJPW c’è una leggenda, Antonio Inoki, tanto fenomenale sul ring, ma veramente terribile sul lato degli affari, ed ha un’idea: portare un misto tra le arti marziali miste e il wrestling, dando così ancora di più l’idea che il wrestling sia reale. Buona idea, pessima esecuzione. Decide di far affrontare una delle sue più grandi nuove stelle, Yuji Nagata, contro un kickboxer giovane, ma con parecchio talento, Mirko Filipovic, in un incontro shoot, quindi un vero e proprio incontro di MMA. Il risultato fu scontato, e in 18 secondi Nagata venne affossato. Perché raccontare ciò? Per mettere ancora più in risalto la storia di due ragazzi: Katsuyori Shibata e Hiroshi Tanahashi. Questi due iniziano insieme la loro carriera nella compagnia, e da subito si nota quanto talento scorra nelle loro vene. È ovvio fin da subito che la compagnia abbia intenzione di lanciarli verso le stelle, sarebbero diventati delle macchine macina soldi, e tutto sarebbe andato verso un bellissimo lieto fine. Ma la vita ha un altro piano. Shibata capisce che con il wrestling non sarebbe andato lontano, la compagnia sta lentamente affondando, mentre l’MMA sta crescendo sempre di più, e Shibata pensa che quella sia la strada giusta per lui. Le strade si dividono, Tanahashi rimane dov’è, diventando l’Ace, il volto della compagnia, e dall’altro lato Shibata va via, e non pensa più al wrestling…fino al 2012.

Shibata torna non in pompa magna, deve ricostruirsi la fiducia che la compagnia ha perso nei suoi confronti, e ci riesce, il pubblico lo segue e ricomincia ad affezionarsi a lui, fino a convincere che questo suo nuovo stint non è solo per i soldi, non vuole essere il Brock Lesnar di turno, vuole dimostrare che ha qualcosa da dimostrare a tutti, vuole scusarsi (a modo suo) per quel suo addio. Finisce sulla cresta dell’onda, vince un match dopo l’altro, e quando arriva al G1 Climax del 2013 è assolutamente pronto a crearsi una posizione da main eventer. Vince, perde, ma i giochi sono aperti fino all’ultimo giorno, quando il suo avversario è Hiroshi Tanahashi, che non apprezza per nulla il suo avversario, sia per il suo passato, sia per la sua persona. I due combattono, ma Tanahashi lo umilia, non lo distrugge, ma lo batte con uno small package, dimostrando che anche se lui pensa di essere pronto, non è assolutamente al livello dei veri main eventer, e per dimostrarlo non si stacca da lui, lo avvinghia con le spalle al tappeto per 5 o 6 secondi.

Passa un anno, Shibata continua a lottare e ad allenarsi, e di nuovo i due si scontrano nel G1. Tanahashi prova a batterlo di nuovo come l’anno prima, con uno small package, ma Shibata ha capito le tattiche dell’avversario, e mentre un anno prima ha perso tentando una G2S, quest’anno la stessa mossa non lascia scampo, e anche l’Ace rimane al tappeto. Non va bene però, non è giusto. Come ha fatto un ingrato come lui a vincere contro un lottatore costante ed allenato? Non ci sta, e non solo per la sconfitta, ma perché il pubblico tifava più l’ingrato che lui. Perché? Perché tifare un ingrato, quello che è scappato non appena ha visto il primo pericolo, piuttosto che il lottatore sulle cui spalle la compagnia si è ricostruita? Vuole dimostrare qualcosa, vuole dimostrare che i 10 anni di assenza di Shibata gli hanno insegnato qualcosa che lui non conosce: rialzarsi sempre da ogni colpo. I due si sfidano un’ ultima volta a Destruction in Kobe, e quello che venne fuori fu un colpo al cuore, dove anche l’Ace è costretto a riconoscere la forza di volontà del suo avversario, quanto anche lui sia cambiato col tempo, e con una semplice stretta di mano dimostra più di quanto si possa pensare, mostrando non solo rispetto, ma anche scusandosi per tutto l’odio che gli ha lanciato contro. Questa è una storia di redenzione. Questo è il Purosesu.