E’ evidente, ormai, che dopo anni di soporifero monopolio della World Wrestling Entertainment, il Wrestling Hardcore se lo ricordano in pochi. Quello stile sgraziato e spensierato, che porta la maggior parte delle volte a temere per la salute degli atleti coinvolti, è rimasto nascosto, e in parte lo è ancora, dietro un fumo che divide popolarità da voglia di essere popolari. I Wrestler Hardcore, oggi, quelli che calcano i Ring della All Elite Wrestling, quelli che tornano con i loro corpi ormai martoriati a Impact Wrestling, o quelli che vediamo nelle compagnie più piccole, come la Combat Zone Wrestling, hanno tutti una cosa in comune: la voglia di vedere la luce.
Una luce che può illuminare una carriera, oppure illuminare una carriera stata grande ma che ormai naviga nell’oscurità. Magari illuminare una compagnia, i suoi Main Event. Insomma un infinito tentativo di portare in alto il nome di qualcuno o qualcosa. Tutto questo, però, sempre nel ricordo e nel rispetto di chi il Wrestling Hardcore lo ha fatto per innovare, per dare alla gente un motivo in più per seguire il Pro Wrestling, nonostante la popolarità non mancasse, né di protagonisti né di compagnie, nonostante fosse già abbastanza sbattere al tappeto, e fuori dallo stesso, tanto forte da trovarsi a letto per giorni.
Lo facevano per passione, i signori che in Giappone, sotto le insegne della Frontier Martial Arts Wrestling, prestavano la propria pelle al filo spinato che stava al posto delle corde: Terry Funk, Atsushi Onita. Lo facevano per il piacere di dar piacere facendosi male, Mick Foley, Hayabusa, The Sheik, quando i Ring esplodevano, quando le emorragie non erano Blade Job. Sentivano che stavano lasciando qualcosa al futuro, ma non sapevano che dopo di loro sarebbe stato difficile eguagliarli, fare qualcosa di diverso, fare qualcosa di nuovo.
Forse è anche giusto, nel 2019, non dover essere costretti a farsi tanto del male, perché alla fine ogni cosa sta bene nella sua epoca. Forse non è poi cosi sbagliato, per noi fan, non chiedere di vedere una macelleria sul Ring, anche se questa è spinta da una Storyline avvincente, da un odio recitato e interpretato alla perfezione. E’ meglio, senza ombra di dubbio, non vedere Invider in un Ring di Porto Rico mentre sputa fiotti di sangue in preda ad una emorragia interna, o New Jack che scaraventa un collega dall’alto di uno Scaffold Match.
Non voglio condannare il Wrestling Hardcore, anche perché sono convinto che se fatto bene, può essere fatto con sicurezza, lo testimonia la longevità sul quadrato di alcuni dei suoi più grandi pionieri, come Tommy Dreamer, Terry Funk, il più grande di tutti, Sabu, Abdullah the Butcher, Abyss, ecc, però voglio cercare di far capire che, secondo il modesto punto di vista di uno che Wrestling ne ha visto tanto e di ogni tipo, tutto deve avere i suoi momenti, e non si dovrebbe abusare della sorte, sfidando il destino soltanto per strappare un urlo, un “Holy Shit” o un “Oh My God”. L’estremo deve essere tale perché è un limite al quale si deve arrivare, non deve essere il punto di partenza. Salire su un Ring per distruggere se stessi e il proprio avversario senza un motivo, è come raccontare l’ultimo scontro fra bene e male senza aver capito con esattezza quale dei contendenti sia l’uno e quale sia l’altro.
La WWE ha abbandonato da tempo quello che è il Wrestling Hardcore nel suo significato più intimo, altri lo abbracciano completamente distruggendo i proprio atleti senza un motivo. Io voglio che ci sia una via di mezzo. Voglio che ci sia, e so che si può, perché l’ho già visto e vissuto, quella via di mezzo che mi fa godere di una bella rivalità che culmina nella violenza, però sicura, almeno nei limiti di quella che può essere la sicurezza in questi casi, e sensata, nel giusto istante, nel giusto momento.
Lo vorrei cosi che quei mostri sacri possano riposare, chi a casa e chi in pace, sapendo che ciò che hanno fatto in passato è servito a insegnare alle nuove generazioni a regalare emozioni, non momenti sadici e spesi senza una vera ragione.