Il Codice del Samurai va cercato nella morte. Si mediti quotidianamente sulla sua ineluttabilità. Ogni giorno, quando nulla turba il nostro corpo e la nostra mente, dobbiamo immaginarci squarciati da frecce, fucili, lance e spade, travolti da onde impetuose, avvolti dalle fiamme in un immenso rogo, folgorati da una saetta, scossi da un terremoto che non lascia scampo, precipitati in un dirupo senza fine, agonizzanti per una malattia o pronti al suicidio per la morte del nostro signore. E ogni giorno, immancabilmente, dobbiamo considerarci morti. È questa l’essenza del Codice del Samurai.
Katsuyori Shibata è un uomo che ha dato così tanto al wrestling, senza ottenere particolari successi, da sembrare quasi una figura mitologica, lontanissima dal nostro tempo. Forse questo è ciò che lo fa percepire in questa maniera.
Shibata è un guerriero, un uomo del destino per certi versi. Con Tanahashi e Nakamura a inizio degli anni duemila venivano indicati come i nuovi tre Moschettieri della NJPW e già da quegli anni si parlava di antipatie tra Shibata e Tanahashi.
Shibata è un guerriero che sta sotto la cascata, Tanahashi è una rockstar in Giappone: ovvio che tra i due non potesse esserci chimica dentro e fuori dal ring. Katsuyori viene da Kuwana, una città di mare della prefettura di Mie, tra l’oceano e la montagna; mi piace pensare che il suo spirito innato sia stato forgiato tanto dalla sua terra, quando da quello degli antenati. Disciplina, tradizione, sofferenza e fragilità. Tutto mescolato insieme.
Quando avevo circa vent’anni, lessi con curiosità il vecchio libro di Yamamoto Tsunetomo, che si intitola Hagakure, una lettura che ancora oggi, a distanza di tantissimi anni porto nel mio cuore. In questo breve e intenso libro, ci sono frasi, pensieri, lontani secoli con delle indicazioni sullo stile di vita che avrebbe dovuto tenere un Samurai. Ci sarebbero tantissime citazioni da dedicare a Katsuyori, un uomo che ha vissuto sempre al limite.
Spesso usiamo questa formula del “vivere al limite” quando si parla di wrestler che hanno piegato il fianco ai propri vizi, Katsuyori no. Katsuyori è l’esatto opposto, è andato alla radice della sua identità, ha impiegato tutta la vita per essere l’uomo di oggi: fiero, potente, forte e contemporaneamente umile, debole e fragile. Un uomo pieno di contraddizione, come la terra che lo ha fatto nascere e crescere.
Sakura Genesis di due anni fa: dopo aver vinto la New Japan Cup dello stesso anno, rischia la morte per aver chiesto l’impossibile al suo corpo. Alla fine dei conti, regge l’urto, lasciando tutti i fan in giro per il mondo con il fiato sospeso e torna al G1 Climax 2017. Il pubblico lo acclama, Katsuyori trattiene l’emozione, non come vorrebbe, si inchina e dice “sono vivo, questo è tutto”.
Katsuyori è passato nel giro di pochi mesi dalla difesa del titolo della Rev Pro contro Matt Riddle all’essere spezzato nel corpo e nello spirito. Ma lui è un guerriero che sta sotto la cascata, un duro, uno che crede che la disciplina lo rinvigorirà. Diventa allenatore e accompagna il debutto di KENTA nella compagnia.
Spiegare Katsuyori in poche righe è tanto complesso, è stato un anello cruciale di una storia che parte da Antonio Inoki e arriva ai giorni nostri; un performer che avrebbe dovuto vincere di più, che è stato messo da parte perché questo non è il suo tempo: è arrivato sul pianeta giusto, nella nazione giusta ma in un momento storico, dove anche il Giappone è cambiato: uno come lui necessariamente non poteva funzionare.
Troppo onesto, troppo sincero, troppo libero da costrizioni. Il suo non è più il codice del Samurai, dall’estate del 2017 diventato un Ronin. Un Samurai senza padrone, il suo “padrone” era il suo sport, che è morto in quella primavera e adesso, chissà, ha trovato la sua pace.
Quando si è determinati, l’impossibile non esiste: allora si possono muovere cielo e terra