Il motore si accese dopo un colpo di tosse che sembrava rispondere al suo. Stava per cominciare un nuovo viaggio e il suo copro, largo e pesante, emetteva gli ultimi gemiti di lamentela, come a suggerire di lasciar perdere, infuocato dalla stanchezza e deriso dal tempo che gli scorreva addosso. Trentaquattro anni non sono tanti, ma se si passano a prendere colpi e a farsi assaggiare dal suolo possono sembrare settanta. Non pensava spesso alla morte ma credeva che prima o poi anche il suo necrologio prematuro sarebbe finito sulle pagine di qualche rivista dedicata al Professional Wrestling, creatura che cominciava a cambiare definitivamente e a trasformarsi in oggetto per gli utenti di tutto il globo.

 

Il viaggio cominciò, ancora una volta, parallelo al viaggio della sua vita che nel bene e nel male, lo aveva sempre portato, alla fine dei conti, dove voleva. Keith A. Franke Jr era nato a Buffalo, il 15 Settembre del 1954. Aveva fatto sempre tutto ciò bisognava fare per cercare di scalare la vetta e diventare qualcuno. In parte ce l’aveva fatta e anche se non era riuscito a viaggiare con un aereo privato, in limousine o al limite spesato, era comunque felice del suo essere una cosa sola, particolare e l’unico in grado di sfidare i dettami del buon costume suscitando scalpore si, ma anche smuovendo le coscienze di chi credeva che essere diversi fosse una colpa, addirittura una malattia.

Mentre il viaggio continuava pensava a tutto questo.  Pensava che sarebbe stato forse più facile salire semplicemente sul Ring e battere forte le mani sui copri dei malcapitati avversari, assaporando le urla dei fan nei momenti dolci e i loro fischi nei momenti ruvidi. Però non sarebbe stato completo. Nonostante il suo pessimismo e la sua indecisione, soprattutto in quella occasione, adesso non si pentiva di niente e riteneva di aver dato una mano importante non solo nell’intrattenere i giovani che pagavano un biglietto, ma anche per qualcuno che lo poteva osservare soltanto da lontano e imparare che l’individuo è sempre eccezionale, seppur a modo suo. Era stato Vince McMahon a proporgliela. Era stata la World Wrestling Federation, terra di opportunità e croce e delizia di un combattente, a mettere in piedi quella che ai primi passi sembrava soltanto una pagliacciata. A tutti.

L’inizio non fu per niente facile. Le critiche, dentro il Backstage, fuori dallo stesso, dal pubblico e dai colleghi, piovevano. Alcuni addirittura pensavano che questa fosse una punizione. Tutti quei bravi pensatori che sempre hanno etichettato Vince McMahon come un omofobo ma si dimenticano che per anni ha tenuto accanto a se, come strettissimo collaboratore, un omosessuale dichiarato, che è arrivato anche a difendere, a ragione o torto, di fronte all’opinione pubblica e alle accuse di molestia. Ma la nascita di Adrian Adonis non era una punizione, se non per tutti quei perbenisti e religiosi incalliti che non vedono aldilà del loro minuscolo naso e pensano che per essere bravi fedeli, ci sia bisogno di seguire i versetti di un libro. Adrian Adonis, o Keith, come preferite, era la luminosa incarnazione di tutti coloro che adesso potevano e dovevano avere il coraggio di rivelare il loro gusto, perché semplicemente di questo si parla, un gusto.

Si depilò le gambe, si tinse i capelli di platino e cominciò con il suo portamento effeminato, provocatore, ammorbante. Tutto questo lo portò a Wrestlemania, il posto più importante nel quale un Wrestler possa stare e tutto questo lo portò a poter rivelare il suo grandissimo talento, messo, adesso, anche a disposizione di un qualcosa di più grande, qualcosa che andava oltre la pura lotta libera. Era, badate bene, non una questione di Booking, non una questione di obblighi contrattuali. No. Quando il buon Keith lasciò la WWF decise di andare avanti con la sua Gimmick, di proseguire il viaggio continuando a lasciare le sue impronte, che più in la saranno seguite da altri, perché se cercate di Adonis su Google immagini, poco sotto comparirà anche la foto di Goldust, e poi, come un salto temporale dentro un’evoluzione, quella di Darren Young. Loro sono quegl’altri, senza più paure, senza più preconcetti, con la voglia di essere ed esprireme se stessi o di rappresentare qualcun altro.

Stavolta il suo viaggio, dentro il suo grande percorso, lo stava facendo verso un nuovo Show. William Arko, Victor Arko, and Dave McKigney erano i suoi compagni di viaggio. La sua mente rifletteva sulla propria vita, come sempre succede quando si percorre una strada dritta priva di parole, priva di un vero e proprio destino visibile. Era fiero di se, alla fine del calcolo. Era fiero di aver dato qualcosa che esulasse da uno sport, da uno spettacolo, da un semplice giro infinito di eventi ai quali presidiare. Adrian Adonis, figlio dell’incredibile talento di Keith A. Franke Jr, era stata ed era la luce per molti, una luce che però si spense troppo presto, a trentaquattro anni, su quella strada per Lewisporte.

Un alce attraversò la strada tagliando la strada ai tre. William Arko non riuscì a fare molto e il furgone sul quale viaggiavano impazzì insieme alla strada, rendendo facilissimo il compito alla morte, che nera e tenebrosa aspettava sul ciglio per strappare con un colpo di falce la vita di quegli uomini. Morì Keith “Adrian Adonis” Franke, morì Dave McKigney, morì Victor Arko. William Arko riuscì a salvarsi seppur frantumandosi tutte le ossa delle gambe e non solo.

Keith Franke lasciò su questa terra una moglie e due figlie, che lo aspettavano in California. Forse questo era ciò che c’era scritto nel cielo di Keith. Doveva nascere e vivere soltanto per una missione e compiuta quella poteva anche andarsene. Adrian Adonis sfruttò alla grande la sua popolarità e il suo talento per il bene di chi aveva avuto il coraggio e la voglia di fermarsi a guardarlo. Ruppe alcune di quelle catene che sembravano indistruttibili in un ambiente e in una nazione dove spesso ciò che sembra scontato non lo è affatto.

Perché infondo il Wrestling è anche questo: ridicolizzare la normalità cosi da esorcizzarla. Immortalare ciò che sembra sporco e immorale per trasformarlo col passare del tempo in una delle tante sfaccettature della vita. Trapanare i cervelli di chi non vuole ascoltare e costringerli a funzionare. Il Wrestling è passione, che unita alla devozione di alcuni uomini può essere un esempio. E se non è sempre cosi è perché la natura conosce il genere umano, conosce la sua grande stupidità e ha deciso che la grandezza va distribuita con parsimonia, perché altrimenti diventerebbe normale, e nessuno starebbe li a guardarla. E se cosi fosse, non nascerebbero uomini in grado di spostare le opinioni, dare un esempio e vivere, fino all’ultimo momento, per lasciare il segno.