Nella vita, il più delle volte, ci viene insegnato che, nel caso in cui fossimo in disaccordo con una persona, dovremmo provare a ragionarci civilmente, a non perdere la calma, a non scendere al suo livello, bensì provare a comprenderla, a spiegargli le nostre motivazioni senza alcuna aria di superiorità; ci viene insegnata, insomma, l’importanza del dialogo. Eppure è più facile a dirsi che a farsi non è vero?
Sarà capitato a tutti, prima o poi, di trovarsi davanti a una persona che dice qualcosa che vi fa arrabbiare, arrabbiare davvero, qualcosa per cui sareste anche disposti a togliergli il saluto e a non rivolgergli mai più la parola; una persona che dice una stupidaggine talmente colossale da farvi credere che qualsiasi forma di dialogo sia inutile e l’unica soluzione sia un bel vaffanculo e chi si è visto si è visto. Parlo di argomenti molto seri, ovviamente, non tanto di legittime divergenze politiche o, che ne so, se Baron Corbin sia effettivamente o meno un wrestler demmerda (anche perché la risposta in questo caso è ovvia). Parlo di questioni leggermente più delicate: un collega di lavoro fascista, ad esempio, o antisemita, perché no; il vecchietto del bar che tira fuori un discorso maschilista rovinandoti il gusto dell’espresso che ti stai bevendo in santa pace; i tuoi genitori che invitano a cena un amico che nel bel mezzo del pasto dice che in fondo spianare tutta l’Africa per farci un bel parcheggio non sarebbe una cattiva idea; roba di questo genere insomma. E tu come ti comporti? Per esperienza personale, non ho quasi mai avuto il coraggio di non rivolgere più la parola a quel collega, di smettere di salutare allegramente quel vecchietto, o di alzarmi da tavola senza neanche aspettare il caffè e chiudermi in camera mia; però altrettanto raramente ho deciso di mettermi lì a discutere, civilmente, cercando di spiegare a quella persona la gravità delle sue parole ma al contempo non credendo che fosse senza speranza. Il più delle volte, semplicemente, ci si passa sopra, si ignora, si evita di discutere e, per il quieto vivere, si continua a frequentare certa gente sperando che non dicano troppe cazzate in un solo giorno. La WWE, questo, non l’ha potuto fare. La WWE non ha potuto scegliere di non presentarsi agli eventi in Arabia Saudita, come Daniel Bryan, non ha potuto neanche lanciare frecciatine come andare agli eventi, scattarsi una foto con una maglietta Gender Fluid e postarla quando sei al sicuro sull’aereo di ritorno, come Finn Bàlor.
La WWE è un’azienda, quotata in borsa e con un discreto capitale da gestire, la WWE ha deciso di gettarsi nel mercato arabo e riguardo la questione femminile ha dovuto prendere una posizione. In generale la posizione delle grandi aziende non è mai l’embargo. Sarebbe bello no? Un Paese, un marchio, si comporta male e la risposta dei Paesi esteri è l’esclusione totale: basta accordi economici di qualsiasi tipo finché non vi metterete in pari con degli standard basilari di democrazia. Bello, ma difficilmente praticabile; a questa via si preferisce invece, appunto, il dialogo. Lo aveva detto Randy Orton in un’intervista un po’ di tempo fa: possiamo chiudere le porte all’Arabia Saudita o ingoiare momentaneamente il rospo e sperare che tra qualche anno ci permetteranno di portare da loro le nostre atlete. E così è stato. Perché poi la WWE, appunto, è un’azienda e se da una parte c’è un Paese estero che offre molti soldi a certe condizioni, dall’altra parte c’è il “suo” Paese, o il resto del mondo occidentale, che non si è risparmiato in critiche feroci contro la WWE e contro la scelta di escludere le atlete dagli show in Arabia, anche se in cambio abbiamo avuto Evolution. Perciò era ovvio che la WWE non avrebbe cessato il suo lavoro di mediazione, ma che avrebbe continuato a fare pressioni, fino a che non ha ottenuto un primo, importante, risultato.
Si potrebbe discutere ancora molto sulla scelta delle atlete, sulla loro performance, sulla valutazione del match, su come sono state costrette a vestirsi, sapere se magari ad altre atlete è stato proposto di partecipare ma hanno rifiutato, perché loro, appunto, possono decidere di alzarsi da tavola, chiudersi in camera e non rivolgere più la parola a chi non è di loro gradimento. Io credo che l’abbraccio finale di Lacey Evans e Natalya, le loro lacrime, valgano più di mille parole. Un passo avanti è stato fatto, si può sindacare se sia stato fatto bene o male, se avrà o meno un qualche significato. Questo non è Rocky IV e un match di wrestling non cambierà il mondo, ma se è vero che il mondo cambia a piccoli passi, questo è stato uno di quelli molto importanti.
Voi cosa ne pensate? Che peso date al primo match femminile in Arabia Saudita? Credete che la WWE abbia adottato l’approccio migliore? Oppure siete fautori della “linea dura” e un accordo con un Paese problematico come questo non lo avreste neanche preso in considerazione?
Io, avrò il cuore tenero, ma un po’ mi sono commossa, fate vobis.