Se dovessi fare un paragone, assocerei l’essere un appassionato di wrestling con una montagna russa. Nel turbinio di curve e variazioni di velocità, le sollecitazioni date dalle vette e dalle valli sono improvvise e destabilizzanti, creando sgomento o incontrollabile eccitazione.

Una delle vette maggiormente alte del 2019 è stata senza dubbio l’ascesa di Bray Wyatt, anzi la resurrezione di questo performer. Dopo una lunga pausa, che ha seguito una coda di stint non propriamente esaltante, da fine aprile abbiamo cominciato ad assistere alla proiezione, durante le puntate di RAW, della firefly funhose, un programma per bambini con voci degli stessi fuori campo, che ha ripresentato Bray ed i suoi nuovi, inquietanti amici.

L’esordio della Funhouse è stata una delle cose più innovative, originali e minacciose dell’epoca recente del wrestling: quello che potremmo tutti definire un colpo di genio. La follia di Bray è rimasta intonsa, se non aumentata, così come la sua indole violenta: i suoi “amici” sono come degli Horcrux, frammenti del suo passato fallimentare e della sua anima corrotta, e l’intero programma altro non è che un’elaborata e complessa trappola psicologica per dar fiducia a questo individuo apparentemente redento, che una volta “entrato” potrebbe non uscire mai più.

La grandezza della FF è stata proprio la raffinata psicologia dietro la sua intera costruzione. Come una complessa ragnatela fatta di zucchero filato, questo espediente elaborato da Bray Wyatt non solo per tagliare i ponti con il suo passato, ma anche per riguadagnare la fiducia delle sue lucciole è stato qualcosa di pensato, ben eseguito e perfettamente calibrato. L’esordio del Fiend, nella FF prima e nel corso di RAW poi, è stato sconvolgente ed ominoso, condito da un look da film horror ed una minacciosità intrisa in ogni singolo dettaglio della maschera e dell’attire in generale, lampada a forma di testa compresa. Bray ha dato vita ad un personaggio che sarebbe stato acclamato anche in una serie TV, in un fumetto, in un film ad altissima produzione, figuriamoci in un contesto come quello del wrestling. Tuttavia alla vetta elevatissima toccata da questo personaggio al suo esordio è seguita una discesa tanto rapida quanto vertiginosa.

Sin dai suoi esordi come la versione 2.0 di sé stesso, ho sempre mantenuto un ottimismo piuttosto cauto circa questo performer in quanto il grosso limite di Wyatt è da individuarsi nel quadrato, tra le corde. Non che sia un worker assolutamente improponibile, intendiamoci, ma il ritmo che riesce a dare (o non dare) ai suoi match risulta essere soporifero, lento, macchinoso, a tratti insopportabile. Ecco, questo limite è venuto fuori in modo prepotente una volta superato lo squash match contro Finn Bálor, in particolare con la faida contro Seth Rollins, che infiniti danni ha arrecato ad entrambe le parti in causa.

Partiamo con una premessa doverosa: i match a luci rosse (al pari di quelli con luce azzurra di Sin Cara) sono inammissibili, atroci, brutti, maggiormente difficoltosi per i performer, meno godibili per gli spettatori oltre ad essere una cagata. Lo stesso Seth Rollins, durante una puntata di WWE Backstage, ha sottolineato come questo espediente scenico sia fortemente limitante per poter prendere le misure ed effettuare mosse in modo pulito “disturbati” da una luce rossa soffusa per 15 minuti. A questo aggiungiamo un performer notoriamente “problematico” in match di una determinata lunghezza ed un finale da psicofarmaci, ed ecco pronta una bella frittata fatta di uova, disastro e livore.

Una faida strutturata male, un babyface improvvisamente divenuto poco efficace, una certa ripetitività negli angle, un’esecuzione fallace sul quadrato, uno dei finali maggiormente illogici della storia del wrestling (Hell in a Cell chiuso in un No Contest, ricordiamolo) e quella cacchio di luce rossa: questo insieme di fattori ha di fatto abbassato di vari gradini le quotazioni di Rollins (in ripresa, fortunatamente, grazie ad un salvifico e provvidenziale turn heel) e quelle dello stesso Wyatt, che nonostante la vittoria Titolata sembra oramai avviarsi in modo inesorabile verso le tiepide reazioni antecedenti la sua rinascita. La sua unica speranza, oggi, si chiama Daniel Bryan.

L’unico match nettamente sopra la sufficienza disputato da Bray Wyatt è avvenuto nel 2014, alla Rumble, proprio contro Daniel Bryan: parliamo di ben sei anni fa. Oggi i due performer sono diversi, con uno status sicuramente di altra caratura rispetto all’epoca e Bryan ha dovuto abbassare di qualche tacchetta il volume del proprio lottato, al fine di avere una carriera maggiormente longeva. Potrei parlare a lungo di come la WWE abbia botchato il ritorno di Daniel Bryan dal ritiro (Big Cass cribbio, Big Cass!), tuttavia sembra che l’American Dragon sia nuovamente in rampa di lancio come top face, e chissà che non sia proprio lui la chiave di volta per ridare non solo lustro alle performance sul quadrato di Bray, ma anche a creare quella nemesi “pura” in grado di rendere l’oscurità del Fiend ancor più fitta e tetra.

Bryan potrebbe essere la persona adatta a scalzare the Fiend ed arrivare a WM come Campione Universale, ma tutti noi sappiamo che molto probabilmente toccherá a Reigns, ed in parte forse è anche giusto così. Il punto è: dopo questo stint da Campione Bray riuscirà ad evolvere ulteriormente oppure il suo fascino come character ha già raggiunto il suo apice?

Direttore di Zona Wrestling. Appassionato di vecchia data, una vita a rincorrere il Pro Wrestling, dal lontano 1990. Studioso della disciplina e della sua storia. Scrive su Zona Wrestling dal 2009, con articoli di ogni genere, storia, Preview, Review, Radio Show, attualità e all'occasione Report e News, dei quali ha fatto incetta nei primi anni su queste pagine. Segue da molti anni Major ed Indy americane e non.