La scorsa settimana il mio editoriale ha ricevuto diverse critiche perché si evinceva una mia disapprovazione verso Logan Paul “wrestler”, da molti stimato. Mi spiace che si sia desunto ciò, soprattutto perché questo non era il messaggio che ci tenevo a trasmettere. Non ho mai criticato le qualità sue, peraltro abbondantemente dimostrate nel corso di questi due anni, quanto la sua gestione da parte della Compagnia di Stanford. Il mio timore più grande è che la scelta di porre nel Main Event per il titolo mondiale un non-wrestler (un atleta che si esibisce 10 volte l’anno non può definirsi tale), ovvero una personalità riconoscibile per altri motivi e che, per un periodo limitato si trova a coincidere con questo business, al solo scopo di vendere quanti più biglietti possibili possa diventare abitudine ricorrente. Sarebbe la morte del wrestling per come lo conosciamo noi oggi (e forse per come si è sviluppato nel corso degli anni). Perché se è vero che questo Mondo è intrattenimento, divertentismo e goliardia, è anche storia, rispetto della logica e un minimo, una briciola quasi, di credibilità. Ecco, Logan Paul che per la terza volta in due anni si trova in un Main Event di un grande evento della più ricca federazione di wrestling al Mondo non è questo. Checchè si provi ad argomentare il contrario…

Questa strategia ha del pericoloso perché, anche dovesse riscuotere discreto successo all’inizio, finirà per fallire rovinosamente nel lungo periodo. Il ricorrere sovente alla personalità “esterna” per aumentare la visibilità vedrà una netta (e logica) opposizione dei fan hardcore, e il netto rifiuto di quelli occasionali che percepirà l’intero business come un circo (appunto) di animali esotici dove poter vedere i più disparati incontri tra VIP (predeterminati), più che come una disciplina con una identità ben precisa, che l’ha resa fino oggi di così grande attrattiva. Una identità costituita dal sacrificio degli atleti che raggiungono il Main Event di uno show dopo decenni passati ad esibirsi davanti a 10 persone ogni sera. Identità resa dalla passione di lottatori che sacrificano la loro vita e gli affetti personali per uno scopo. Identità di una disciplina che presenta giovani promesse all’inizio, permettendo al pubblico più affezionato di seguirne la lenta evoluzione fino alla consacrazione di un titolo mondiale, tra lacrime, gioia e festeggiamenti. Certo l’outsider, se così si possono definire, c’è sempre stato e sempre ci sarà, ma ha sempre funto da contorno alla pietanza. Hanno arricchito il piatto, alle volte migliorandolo. Non sono mai stata attrazione principale, e non solo perché spesso capitava che non avessero le abilità atletiche necessarie, ma anche perché ciò avrebbe dimostrato platealmente che bastava avere notorietà per giocarsi il titolo Mondiale di una federazione di Wrestling.

Spesso la storia di un evento è la dimostrazione pratica della veridicità di un assunto (ciò che la filosofia e la scienza definisce “empirismo”). Sicché si può trovar conferma della giustezza di questa mia idea proprio nei trascorsi della WWE; L’ultima, e se non erro unica, volta in cui un personaggio diventato famoso per ben altri meriti ha combattuto in un ME di uno show importante della WWE risale a ben 39 anni fa (eccettuato la presenza di Lawerence Taylor a WM 11 ricordata ancora oggi come una terribile scelta creativa, proprio in virtù della sua “estraneità”). Peggiora ancor di più il quadro generale la convinzione che, tenendosi King and Queen of the Ring in Arabia Saudita, l’opzione Logan Paul è spiegata dalle pazze esigenze di un pubblico fanatico. Bisogna ora capire se questo è realmente ciò che è accade, e sono a che punto ciò è “tollerabile” prima di un sincero rigetto dei fan; Se Crown Jewel già non gode di una ottima nomea (grazie soprattutto al tentativo malsano di esaudire il costante desiderio del dream match nel corso di questi ultimi anni), e dimostrandosi anche questo nuovo PLE non dissimile proprio perché tenuto in terra Araba, c’è il concreto pericolo che gli eventi sponsorizzati lì possano finire per diventare una macchietta. Bisognerebbe invertire la rotta e ripristinare il sistema, proponendo match organici alla narrativa ed evitando il più possibile accozzaglie strampalate. Bisogna che, anche laddove il guadagno è elevato, la WWE continui a fare la WWE, e non la solita occasionale fiera di Paese.