Il destino è scritto, alcuni pensano. Il destino è costruito da ognuno di noi,  altri rispondono. Io sinceramente non so se il nostro destino è scritto, se c’è qualcuno che si prende la briga, quando veniamo al mondo, di scrivere su un libro invisibile il cammino che dovremo affrontare, riflettendoci sull’acqua e cercando il futuro dentro il fuoco. Non so se qualcuno di più importante, ultraterreno, davvero sia pronto con una penna in mano. Ciò che so, è che se è cosi, non è per niente divertente, e spesso, purtroppo, nemmeno giusto.

Perché è giusto, secondo voi, vivere una vita con una mano sul cuore e sull’avversario, rispettando e guadagnandosi il rispetto altrui, indebolendo il proprio scheletro e lavorando sodo per te e soprattutto la tua famiglia, per poi cadere nel più violento e improvviso dei modi? Direi di no. Direi che il libro invisibile, se davvero c’è, è scritto da qualcuno al quale piace giocare, qualcuno che non prova sentimenti, che non prova dolore, non gode. Non fa altro che tirare una moneta e vedere quale delle sue idee malsane sia la migliore.

Sylvester Ritter aveva 45 anni quando è morto. Aveva quell’età nella quale si comincia a essere abbastanza grandi da non essere più fregati dalla vita, quell’età nella quale, aldilà di tutto, si pensa ad andare avanti, senza i problemi che affliggono la povertà, la responsabilità, la razza. Proprio in quel momento, in quel preciso momento, in un bel giorno, il buio cala, come se la notte avesse fretta, se il tramonto non potesse aspettare.

Era un bel giorno l’uno di giugno del 1998. Dopo anni e anni a soffrire per crescere sua figlia sana, forte e bella, era arrivato il momento del primo traguardo: il diploma. Un orgoglio, una soddisfazione. Era servito a qualcosa viaggiare per anni, vederla poco. Era servito a qualcosa il dolore, erano servite a qualcosa le lacrime. Aveva sempre pensato che la sua fosse quasi una missione, per aiutare, nel suo piccolo, un popolo che negli anni 80 non era ancora perfettamente integrato, non aveva ancora gli stessi diritti, o almeno non riusciva a farli valere. Adesso sapeva che non era stato soltanto un alfiere della povera gente, non era stato solo uno degli uomini più amati del suo ambiente, era stato importante anche per lei, per LaToya.

Un bel giorno, ma un giorno a metà..

Fu con tutta la gratitudine verso Dio, tutta quella che riusciva a tirare fuori, che salì in macchina e si mise sulla via del ritorno. Casa era lontana e purtroppo, ancora una volta, non poteva essere per troppo tempo accanto alla sua piccola. Se avesse saputo, in quegli istanti scritti da un folle, che non avrebbe mai più rivisto la ragione della sua vita, quella macchina l’avrebbe lasciata parcheggiata, per sempre, a marcire. Avrebbe abbracciato LaToya e l’avrebbe stretta, proteggendola dalla morte di suo padre, del suo punto di riferimento, e dalla sua, perché la morte è come un esplosione, distrugge ciò che c’è vicino, ma lancia in giro pezzi di oscurità incandescente, che fondono se stessi e coloro ai quali si appiccicano.

La strada nemmeno impazzì. Chi scrisse la sua storia, quello stolto dai fogli invisibili e la penna codarda, non gli diede nemmeno il piacere di rivedere davanti ai suoi occhi i momenti più belli della sua vita. Non rivide LaToya, non rivide un Ring, non rivide la folla. Non poté immaginare per l’ultima volta la folla che gridava nel vederlo passare, nel vederlo assestare le sue letali testate, seduto a quattro zampe, impersonando se stesso e la sua razza, quella che a quattro zampe, proprio lungo quei decenni, cominciava a dare testate per rialzarsi, per essere ascoltata, per essere vittoriosa.

Il freddo lo avvolse, perché la temperatura del suo corpo aumentò, mentre un sonno dolce come il miele annullava i suoi sensi, trasportandolo in un luogo sconosciuto in volo… Poi la fine.

Se ne accorse un istante, e non che stesse per morire. Si accorse in un terribile e interrotto istante, che il mondo era impazzito. Un istante è qualcosa di impercettibile, un istante interrotto e ancora di meno. Non sentì la puzza della benzina, e nemmeno le lamiere contorcersi. Non vide il pianeta terra girare vorticosamente fuori dal suo cristallo. Non udì i vetri rompersi e non seppe mai quale dei colpi strapparono la sua anima dal suo corpo. Quando si rialzò non c’era sofferenza, solo malinconia.

Non seppe come, ma di colpo si ritrovò accanto a LaToya, seduto con lei. La osservava piangere senza poter fare niente. Cercava di stringerla ma non poteva toccarla. Fu cosi che cominciò. in quello che era un giorno bello, la vita invisibile di Junkyard Dog.

Poté vedere decine di migliaia di persone piangere. Poté vedere i suoi funerali. Poté vedere un sacco di cose ed era fiero di lui, perché comunque, non provava rancore. Non ebbe mai la voglia di andare a cercare il maestro invisibile, non voleva cercare di scoprire se davvero esistesse, chiedergli perché. Rimase sempre accanto a LaToya, tranne una volta. Soltanto una.

Tranne il 19 ottobre del 2011, quando la sua piccola aveva 31 anni. La lasciò per un momento, distratto da l’invisibile scrittore, dal padrone del destino, dal signore della morte. Lo distrasse per pochi istanti, mentre LaToya scendeva una scala. Lo distrasse quanto bastava, perché la sua dolce bambina, cadesse nel vuoto. Cercò di liberarsi, ma era difficile. La stretta al braccio era troppo forte e quando gli sembrò di esserci riuscito, in realtà era stato lasciato andare. Non c’era più bisogno di tenerlo.

LaToya era di nuovo di fronte a lui, bellissima, come sempre. Stavolta, come mai era successo dal giorno della sua morte, tornava a guardarlo negli occhi. Poté abbracciarla, finalmente. Ma il momento di gioia durò poco. La vendetta, questa volta, doveva essere consumata. Prese sua figlia in spalla e partì per un lungo viaggio, alla ricerca di quell’entità meschina, e quando la trovò, fece quello che aveva sempre fatto, fece ciò che lo aveva reso una stella, ciò che aveva dato forza a centinaia e migliaia di persone. Si mise a quattro zampe, e mentre dalla terra tutti col naso all’insù gridavano il suo nome, lo distrusse con le sue testate, mimando, una volta di più e per l’eternità, il più significativo e importante abbaiare di sempre.