Qualche mese fa abbiamo avuto modo di commentare assieme I primi due episodi di “The Last Ride”, il documentario che di fatto ha assunto una funzione di sontuosa coccarda sull’enorme regalo che gli dei del wrestling hanno affidato a noi indegni fan, ossia la carriera di Undertaker. Per chi volesse recuperare l’editoriale, questo è il link: https://zonawrestling.net/the-last-samurai/ .

Spesso e volentieri non solo in casa McMahon, ma anche noi fan di wrestling ci lasciamo prendere dalla frenesia di voler bollare o etichettare qualsiasi evento, wrestler o match eccellenti come “il migliore di sempre”. Nella shortlist di quasi tutti i fan si annoverano Hogan, Flair, Stone Cold, The Rock, Bret Hart e Shawn Michaels: Undertaker forse in tal senso ha ricevuto da noi tutti meno rispetto di quanto non meritasse, in quanto il suo volto appartiene senza dubbio alcuno sul monte Rushmore delle leggende.

Da questo documentario sono emersi alcuni dati assolutamente ineludibili: nessuno è mai stato rispettato dai suoi pari più di Taker, nessuno è mai stato più leale verso Vince, la WWE ed i fan di quest’ultima e nessuno ha mai vissuto la gimmick per così tanti anni come Taker, al punto da proteggere il business più della propria vita e della propria persona. Il più leale, longevo e professionale wrestler della storia? Direi che ci sono assolutamente pochi dubbi in merito.

L’intero arco narrativo di questo documentario è stato un circolo diabolico tra fallimento e redenzione, orgoglio e dipendenza da adrenalina, mente e corpo, anima e sangue. E’ stata una delle opere di umanizzazione più efficaci che io ricordi, e la conclusione a cui giunge lo spettatore è come Marc Callaway abbia bisogno di noi fans più di quanto noi abbiamo bisogno di Undertaker nelle nostre vite. In questo senso, probabilmente un match senza pubblico può aver avuto quella forza catartica in grado di fargli dire “sto”, almeno voglio convincermi di questo.

Il match di coppia contro Shawn Michaels e Triple H e quello contro Goldberg hanno avuto un effetto a dir poco devastante sul nostro amato becchino. Limitato sempre più nel suo utilizzo, questi match di alto profilo sarebbero potuti essere quella ciliegina sulla torta che tanto cercava spasmodicamente, per mettere la parola fine sulla sua carriera. In realtà, questi match sono stati la negazione di tutto ciò che Taker aveva rappresentato sino a quel punto: svogliati, pericolosi, approssimativi, lenti, penosi diciamoci la verità.

Il loop che creano questi fallimenti è qualcosa di psicologicamente estremamente interessante: una voglia di rivalsa quasi spasmodica e disperata, un rientro in uno stato di forma ottimale, buone sensazioni e salute. Queste sensazioni a loro volta creano una voglia di continuare, di procedere, di assimiliare ancora una volta l’ingresso, l’emozione, il pop della folla: Undertaker ama questa scarica di adrenalina più di ogni altra cosa, ecco perché per lui è stato (e sarà, non facciamoci illusioni) così difficile sedere nelle retrovie ed appendere stivali ed urna al chiodo.

Questa fase redentiva/riabilitativa è vista non solo dagli occhi dello spettatore e del protagonista ma anche dagli occhi della moglie, che meglio di tutti noi capisce e conosce le tribolazioni del nostro beniamino. Per una persona così orgogliosa, abituata a match dell’anno nel main event dello show più importante sino a pochissimi anni fa, non eseguire nemmeno una chokeslam in modo passabile deve essere un’onta inimmaginabile, una spada di sale in una ferita a cuore aperto: stare vicino ad una persona così forte, e nel contempo così fragile, deve essere una sfida quotidiana, e devo dire che Michelle McCool ne esce in modo splendido, ialino ed estremamente introspettivo.

Forza e fragilità dicevamo. Così come nell’uroboro, dove alfa ed omega solo legati dall’interezza del cerchio e nel contempo da un micron di distanza, così questi due elementi antitetici contraddistinguono a pieno la figura di Undertaker. Un uomo con decenni di esperienza nel business, che di fatto ha retto per molti anni la compagnia sulle spalle in un momento di emorragia di talenti piuttosto importante, leader indiscusso dello spogliatoio, che ha terminato incontri con ustioni di secondo grado appena ricevute, che ha sempre fatto della sua estrema sicurezza in ring il suo vanto, che ha protetto il personaggio creato per lui da una figura paterna come un tesoro, un figlio, un segreto…vedere una persona così avere delle difficoltà a deambulare in modo eretto, prendere in braccio la propria figlia di 20 kg, avere problemi invalidanti a percorrere una rampa particolarmente lunga prima di un match di cartello, beh è qualcosa di davvero unico. Senza contare della straordinaria ed imprescindibile voglia di avere un contatto con i fan, proprio lui che ha sempre limitato i contatti al minimo: forse è stata questa la forza invisibile di Taker.

Non la sua misticità, la profondità del suo character: forse la voglia di legare e comunicare era qualcosa di emanato in modo osmotico, legando in modo indissolubile l’uomo ai suoi fan senza bisogno di promo, interviste o autografi. Andateglielo a spiegare a chi non capisce il wrestling, a chi pensa che sia una cazzata per ragazzini. Andate loro a spiegare che Undertaker è IL WRESTLING.

Un altro elemento estremamente affascinante è la sua totale generosità verso i propri colleghi ed in particolare verso il proprio datore di lavoro. Nel documentario si fa riferimento a Cena, ed un giovanissimo Orton, a Mick Foley, a Kane…ma io ho un altro ricordo vivido in merito a questo punto. Quando su Italia 1 nel 2006 vidi un gigante semovente chiamato Great Khali intento a squashare Undertaker mi chiesi come mai. Mi chiesi come mai un performer di questa caratura, con una credibilità di quello spessore, una Leggenda fatta e finita dovesse essere non solo sconfitto, ma addirittura massacrato ed umiliato da un worker così scarso e con dei limiti così evidenti. Guardando questo documentario l’ho capito. Fine ultimo di Taker non è mai stato costruire la propria carriera per un tornaconto personale, ma poter asservire i propri successi ed il proprio status per la sopravvivenza del business stesso, per creare nuove star, per fornire quell’hummus necessario per far fiorire pian piano quelli in grado di poter reggere la compagnia una volta cavalcato verso il tramonto. In questo senso, molto coerente è la scelta di Styles come suo ultimo avversario.

Il rispetto che Taker ha per HBK è qualcosa di infinito, non credo che questa nozione sia un mistero per nessuno. AJ Styles, per stessa ammissione del Becchino, è attualmente il lottatore più simile a Shawn Michaels in circolazione per esperienza, atletismo e naturalezza: insomma, un lottatore di cui aver fiducia (contrariamente a Goldberg, uno dei pochissimi personaggi per cui Taker sembra non avere affetto o stima) e capace di poter fornire la giusta chiusura. Un wrestler degno di tale alloro. Il resto lo conoscete, in quanto storia recente: il Boneyard Match ha avuto recensioni unanimemente positive, per molti è stata la cosa migliore della Wrestlemania di quest’anno (ho preferito la Firefly Funhouse ma credo di essere in minoranza) e dunque questa eccellenza sembrerebbe essere il gusto suggello per l’uroboro di cui sopra. Il ciclo è interrotto, non vi è bisogno di redenzione: il momento sembrerebbe essere quello giusto per dire effettivamente basta.

Come scrivevo, l’assenza di pubblico e la non costruzione come “match classico” è stato un bene. Pensiero iniziale di molti di noi: Taker avrebbe meritato un’arena piena, un match a 5 stelle, una conclusione gloriosa: mi viene da pensare, tuttavia, che questa utopia non si sarebbe mai potuta realizzare in condizioni normali. Se AJ avesse regalato a Taker un match stupendo, quest’ultimo non si sarebbe convinto di poterne avere altri con l’avversario giusto? Se vi fosse stata una standing ovation da parte del pubblico in visibilio, Taker si sarebbe accontentato di non vederne un’altra, e poi un’altra ancora?

Forse non è affatto la fine, forse non è la fine perfetta, ma più ci penso più mi convinco che sia l’unica fine possibile. Dal canto mio, Undertaker è l’asticella a cui tutti i wrestler potranno tendere senza mai raggiungerla, in quanto uomo appartenente ad una razza in via d’estinzione dove rispetto e lealtà sono le basi su cui costruire tutto il resto. Molti gli si avvicineranno, non ne dubito, ma vi sarà sempre un solo Undertaker, ed il suo livello sarà etereo ed intoccabile.

Ho amato questa serie, amo gli inizi ma le fini hanno un non so che di intrigante, che ci portano ad assaporare tutto con un’altra consapevolezza e prospettiva. Grazie Taker, per aver contribuito a fare crescere in me una passione che mi accompagnerà una vita.