Avrei dovuto occuparmi di Hall of Fame, come sempre faccio negli articoli storici che precedono Wrestlemania. Avrei dovuto cominciare a farlo dall’ultima volta, quando però, fra una ricerca e l’altra, scoprii che Pedro Morales, uno degli apripista del Wrestling moderno, ci aveva lasciato. Avrei dovuto farlo oggi, quando però, fra una ricerca e l’altra, qualche tempo fa, ho scoperto che King Kong Bundy ci aveva lasciato.
L’uomo dietro la Gimmick si chiamava Christopher Alan Pallies, nasceva in New Jersey nel 1955. Chissà, forse, guardando le ultime puntate di Raw della sua vita, aveva sperato che quest’anno, con Wrestlemania vicino a casa sua, la WWE avrebbe potuto finalmente introdurlo nella Hall of Fame. Io mi ritrovo qui a parlare di lui, rinunciando alla Hall of Fame, lui si ritrova nel buio, rinunciando, in maniera leggermente più pesante, alla Hall of Fame.
Già, perché da vivo King Kong Bundy non è mai entrato nell’arca della gloria della WWE. Nonostante il suo contributo al Wrestling, seppur spesso dimenticato e poco considerato, non è stato affatto inconsistente. Certo, non stiamo parlando di un mostro di tecnica, non stiamo parlando di un mostro di agilità, e nemmeno di un mostro di carisma. Stiamo parlando però di quel tipo di Character che, in quei primi anni 80, con il Wrestling ancora in bilico fra realtà e finzione, dava quel brivido sulla schiena al vederlo arrivare. Senza nemmeno un capello, alto due metri, enorme, pericoloso.
Bundy era il prototipo del male in un’epoca nella quale il bene era rappresentato dalla simil-perfezione, da Hulk Hogan, da Ultimate Warrior, da Macho Man. Si creava con King Kong Bundy quell’Heel made in WWE che poi proseguirà il suo corso con André the Giant, con One Man Gang, con Yokozuna. Eppure, nonostante sia stato un apripista nel suo genere, King Kong non è mai riuscito ad arrivare a un traguardo importante. Non un titolo, non secondario, di nessun genere. Il miglior momento di Bundy è stato il Main Event di Wrestlemania, la numero due. Quella edizione fra le peggiori, che nessuno ricorda spesso o vuole ricordare, per quella stupida idea di organizzarla in tre città diverse. Che ironia, questa sorte.
King Kong Bundy non lo si può celebrare più di tanto, ve ne sarete accorti. Le mie parole non escono con fluidità dalla mente, scivolando sulle braccia ed entrando nella tastiera attraverso le dita. Perché Bundy va ricordato, ma non lo si può fare bene, non lo si può fare con il dovuto rispetto, con la dovuta foga. Perché la vita con lui è stata… non dico crudele, però si, ingiusta. E’ probabilmente nato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Troppo tardi per non trovarsi di fronte lottatori del suo genere ma migliori, troppo presto per poter cercare di costruire la sua carriera diversamente, magari in un circuito indipendente in crescita, creativa e di pubblico.
L’unica cosa che non cambia, come sempre, è che poi arriva la fine. 63 anni. Una fine che lascia la tristezza di ogni volta, che riporta alla mente i ricordi, che spolvera quegl’immaginari libri riposti dentro i nostri crani, lasciati li a subire le intemperie dei nostri pensieri. Libri che quando apriamo, ormai, hanno perso quella qualità di scrittura che avevano il giorno dopo essere usciti dalla stampa. E quindi non possiamo più leggere, con esattezza, quali erano le grandezze e le debolezze di un uomo.
Se c’è una cosa di cui non possiamo dubitare però, di King Kong Bundy come di chiunque altro, è che il corpo ce l’ha messo, li, nel mezzo, per noi, per il nostro godimento. Ha messo la mente, l’intelligenza e la schiena a terra. Per Hogan e per tutti quelli per i quali i libri sono sempre e comunque in cima alla pila, in bella vista, ben coperti da un telo impermeabile, immacolato, senza nessun vento ad aprirli, senza polvere a rovinarli, senza buio a dimenticarli. King Kong l’uomo ci saluta in silenzio. Noi ricambiamo il saluto. King Kong Bundy il Wrestler ci saluta ugualmente, in silenzio, ma noi dobbiamo ricambiare alzando la voce, ancora una volta, per fargli sentire, almeno adesso, che sappiamo ciò che ha fatto per noi, o che almeno ha tentato di fare, perché come ogni piccolo operaio del quadrato, ha dato il suo contributo, sotto forma di sangue e ossa, per la nostra storia.