Una rondine non fa primavera, quindi il fatto che la WWE abbia indetto questa sorta di “Torneo della coppa mondiale” non vuol dire che d’ora in poi tutto sarà prodotto con una visione globale. C’è ancora una sorta di sciovinismo ardente in WWE, come in qualsiasi cosa gli americani facciano. È una questione culturale, poco c’entra la loro mancanza di volontà di “globalizzarsi”. Di esempi ce ne sono a bizzeffe, ma tanto per farne due, la mancanza di un riconoscimento titolato per chi è “non americano” e la nomenclatura degli show, degli annunci, delle tipologie di match e di tutto ciò che rientra nel novero del marketing aziendale.

Gli americani, o per meglio dire gli Statunitensi, adorano metterci sempre i colori della loro bandiera sullo sfondo di ogni cosa che fanno. Ripeto, è insito in loro. È un concetto introiettato sin da bambini, e lo fanno in politica estera, nei programmi televisivi e nelle rivoluzioni sociali. Però, quando si tratta di mercato, le leggi sono alquanto “anti-nazionalistiche”. Si deve produrre qualcosa che sia “made in USA”, ma che sia appetibile al pubblico dell’intero globo che, guardando alla merce da acquistare, si possa persino identificare in essa. E la WWE non fa, e non deve fare eccezione.

Negli anni ’90 fu creato il titolo Europeo per via delle presenze rilevanti di wrestler Britannici nel roster della compagnia. Purtroppo quel titolo fu rimosso qualche anno dopo, forse perché il pubblico americano vi si riconosceva poco, oppure perché con gli inizi degli anni duemila quel titolo era diventato “anacronistico”. Un ritorno ad una cintura di quel tipo si sposerebbe al meglio con la nuova politica di Triple H e Co., e cioè rendere la WWE “a global product”. Ora si va verso la costituzione tanto preannunciata di un NXT Europeo, che si intona con le nuove ideologie aziendali. Infine la World Cup, come ciliegina sulla torta, e i tanti talenti che militano nella compagnia non nati su suolo americano.

Prendiamo atto che la WWE diventerà una realtà mondiale, perdendo “l’esclusiva” Americana. Ma cosa riguarderebbe in sostanza tutto ciò? Sicuramente il nome degli atleti in primis. Avremo molti più Giovanni Vinci che Roman Reigns. Poi, i nomi scelti per i loro show potrebbero subire cambiamenti, come anche i dialoghi sul ring, che potrebbero essere sostenuti in altra lingua, a seconda del Paese in cui si svolge l’evento (magari con traduzione inglese annessa, giusto per non perdere l’affetto dei puritani). Infine, potrebbe (il condizionale è d’obbligo, visto che la WWE è in continua evoluzione) ritornare un massimo riconoscimento per i figli d’oltreoceano, come un titolo dei pesi massimi europeo o asiatico. Insomma, il cambiamento è ancora di là da venire, ma sognare è gratis.

Il disegno utopistico descritto sopra potrebbe avere effetti negativi, come la perdita di identità originaria del marchio, per cui una federazione che copre tre interi continenti (se non di più) non è più “distintiva” rispetto alle altre federazioni “autoctone”. Tutti fanno tutto e nessuno fa nulla di diverso. Non che l’essere prodotto made in USA, da solo, possa stare dietro al successo quasi quarantennale della WWE, ma sicuramente ha aiutato a dare una identità diversa ad una compagnia che si distingueva dalla NJPW, dalla AAA e dalla EPW. Per rendere al meglio l’esempio: una “filiale” della WWE che cresce in Europa, con lottatori europei, esaurita l’onda della popolarità del marchio iniziale, in cosa si distinguerebbe dalla EPW? O se succedesse in Sudamerica, dalla AAA, o in Giappone dalla NJPW? C’è un concreto rischio di “perdita della forza” del marchio, decentralizzando così il prodotto. Un po’ ciò che è successo con NXT UK.

La copertura televisiva è fondamentale per la riuscita di uno show. Far proselitismo è un traguardo che soggiace alla diffusione “polidirezionale” del prodotto, che viene propagandato sia perché correttamente referenziato, sia perché gode di una buona cassa di risonanza dei media. Fatico a credere che la WWE possa sottoscrivere contratti televisivi così numerosi, o che possa in un Paese prediligere al brand di punta (Raw o Smackdown), uno relativo alla Nazione ospitante (esempio, un “NXT Asia” ). Ma ovviamente, se così non dovesse essere, e cioè se il prodotto resta “strong”, avremmo un monopolio pressoché assoluto della federazione di Stanford su tutto il globo terracqueo. Nel frattempo, vediamo dove porta questa World Cup, e se la WWE continuerà su questa scia ampliando le sue vedute. O se tutto si ridurrà alla mera contemporaneità e come il titolo europeo nel 2002, appena il vento cambia, tutto tornerà ad essere come prima. In pieno stile gattopardiano.