Sono passati dieci anni dalla fine della grande guerra quando nasce nel cuore del Canada, a Regina, nello stato del Saskatchewan,  John Foti. E’ il 13 marzo del 1928. Poco dopo la sua nascita la sua famiglia decide di trasferirsi, e lui, piccolo e senza potere di parola, si vede portare a Hamilton, in Ontario. E’ qui, crescendo forse troppo velocemente, che Foti scopre di voler diventare un Professional Wrestler.

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Passano gli anni e di grande guerra ne comincia e ne finisce una seconda, ma il suo desiderio di essere un campione del Ring non si spegne. Si allena per tutta la sua giovinezza e trova finalmente un posto nella scuola più prestigiosa del Canada, oltre che una delle più prestigiose del mondo: quella di Stu Hart.

Non solo John da buone sensazioni al capostipite della famiglia Hart, ma in pochissimo tempo, grazie al suo fisico, al suo impegno e al suo talento, Foti diventa un Main Eventer, uno degli uomini di punta sul finire degli anni 50 e degli anni 60. Combatte per la Stampede Wrestling contro personaggi come Killer Kowalski, Lou Thesz, Stan Stasiak, Billy Watson. Il successo finalmente arriva e il suo desiderio diventa realtà.

Anche un altro sogno, parallelo al Professional Wrestling, diventa realtà. Foti si sposa, ha dei figli e riesce a crearsi una meravigliosa famiglia. Insomma, tutto va bene, tutto sembra essere perfetto, tutto è al suo posto. L’imprevisto però, è dietro l’angolo. Il buio aspetta senza fretta, aspetta di mangiarsi la luce, di poter avvolgere un destino che sembrava sempre al sole, sempre sotto la luna.

La vita da Pro Wrestler non è esattamente come John l’aspettava. Gli anni passano e quelli che all’inizio del gioco sembravano dolori dovuti alla fatica, diventano cronici, quasi ossessionanti. Non vuole, e probabilmente non può, affidarsi alle medicine. Ma non può nemmeno lasciare il suo lavoro, la sua splendida famiglia. Lui, sa fare solo una cosa, sa fare solo il lottatore.

Capisce che se intorpidisce un pochino la sua mente, forse, quei dolori non sono cosi insopportabili. Un bicchiere di whisky prima del Match. Basta. Purtroppo però, il nettare della perdizione non funziona a piacimento su chiunque. Il whisky diventa doppio, perché i dolori dopo poco non spariscono più. Con il whisky si fa il bis, si fa anche quando il Match è finito.

John Foti cade nell’oblio dell’alcol. Il buio, pian piano, comincia a mangiare la sua luminosità.

Le sue condizioni portano Promoter e ambiente tutto, a metterlo da parte, prima qualche volta, poi sempre. Il suo stato perennemente annebbiato, dopo qualche tempo, porta anche la sua famiglia a metterlo da parte. Vanno via, sua moglie e i suoi figli. Lo lasciano solo, fra i suoi ricordi sul Ring e i suoi colori. I suoi quadri.

John si rifugia nella pittura. Trova sfogo davanti alla tela, trova di nuovo quella luminosità che il buio sta divorando, cerca quell’attimo in cui fu felice veramente nei suoi disegni, che nella sua mente rispecchiano dolci ricordi. Ma tutto viene spazzato via, puntualmente, dal retrogusto amaro del whisky.

Perso, ormai, decide di comprare quelle medicine con le quali non aveva mai voluto avere niente a che fare. Si prepara all’atto finale. Prima però, prende il telefono. Sa che sua moglie attaccherà appena sentita la sua voce, quindi chiama un amico. Gli dice che sta per buttare giù un intero flacone di sonniferi, e gli chiede, per favore, di avvertire la sua ex moglie. Il suo amico, chiunque egli fosse, non gli crede. Prende alla leggera il suo ultimo, disperato tentativo di chiedere aiuto. Gli consiglia di rilassarsi e dormire un po’.

Sua moglie risponderà che “John non avrebbe mai avuto le palle di suicidarsi”. Nessuno, al mondo, voleva più nemmeno cercare di capire se un uomo, sbagliato o no che fosse, stesse per morire, divorato dal buio e da se stesso.

John le palle le ebbe, e come. Fu trovato dal suo amico, chiunque egli fosse, il giorno dopo, 29 aprile del 1969, nel suo appartamento. Morto, sul divano, fra le uniche cose che lo avevano accompagnato e gli avevano restituito luce nell’atto finale della sua vita, i pennelli, le tele, e un’infinità di colori pieni di vita.