Quando cerco ispirazione per l’argomento settimanale da trattare, soprattutto in ambito NXT, rifletto su cosa in retrospettiva mi ha colpito di più nel corso della settimana: sono un fan di wrestling a livello cronico da più di 20 anni e mi capita di pensare al wrestling anche quando non guardo alcuno show, in pausa pranzo o durante uno spostamento in auto. Meglio non dirlo in ufficio o alla mia ragazza, rischierei l’estinzione biologica.
La prossima settimana vorrei parlare, avendo qualche dato in più, della fase embrionale della Wednesday night war tra la AEW ed NXT: prima di sbilanciarmi preferirei acquisire almeno due episodi dello show. Questa settimana, invece, il main event di Hell in a Cell ha creato in me una voragine cerebrale che non posso non colmare con qualche parola su un foglio word: non parlerò nel dettaglio di questo ominoso evento, sarei ridondante e fuori tempo, ma ho intenzione di usarlo come punto di partenza per qualcosa a più ampio spettro.
Quando ho assistito allo scioglimento del main event, ho provato la stessa sensazione che provai guardando l’house of horrors match tra Orton e, indovina indovinello, Bray Wyatt: incredulità, nausea e disgusto. In tempi non sospetti ho sempre sostenuto che, una volta scemata la novità relativa alla nuova concettualizzazione del personaggio di Bray Wyatt, ció che sarebbe rimasto è un worker estremamente difficile da gestire, soprattutto in un match da 20 minuti. Innanzitutto la sincarizzazione del quadrato con luci rosse (per il luchador erano azzurre, stesso colore invece per Kane) da cinema hot anni ’80 è stata una scelta non solo infelice, ma oserei dire obbrobriosa: fosse durato 5 minuti avrei anche potuto tollerare il tutto, ma 20 minuti di match sono stati oggettivamente troppi, al punto da non comprendere se la luce fosse rossa a causa dei led o a causa di uno spontaneo sanguinamento delle iridi.
In seconda battuta, il pensiero di mettere Wyatt (abusando della sua notorietà, cosa che accade per qualsiasi elemento che va over ultimamente) in questa situazione non volendo, al contempo, far perdere Rollins è stato un vero e proprio suicidio che ha creato una tempesta perfetta (di sterco): durata insopportabile, gestione inaccettabile del finale con 15 curb stomps (15 finisher non risolutive, credo sia un record assoluto: questa mossa non serve più ad una mazza) ed il NO CONTEST chiamato in un match che prende il nome dal luogo dove, in teoria, dovrebbe risiedere Lucifero assieme ad innumerevoli satanassi ed anime dannate che si laurea come uno dei finali più incoerenti, illogici e cerebralmente lesivi della storia recente e non del wrestling. Il tentativo di omicidio di Storm ai danni di Mickie James (https://www.youtube.com/watch?v=_r8fKdwyuKA) in retrospettiva mi sembra Kubrik (cit.).
Questo evento, assieme alla mancanza di struttura in una card che si basava solo su tre match complessivi, è la fotografia perfetta di una federazione che, al momento, si trova in uno stato di confusione pressoché totale. La AEW non è stata che un catalizzatore di un processo partito molti anni addietro, definirla semplicemente come causa di questo momento di sbandamento credo che sia non solo pretestuoso, ma anche storicamente inesatto.
Se dovessi tracciare una linea sulla sabbia, direi che il semi-ritiro di John Cena è stato l’inizio di questo lungo percorso verso noia e mediocrità: non dico che tutto sia dipeso da quello, tuttavia la mancanza di un punto di riferimento saldo, affidabile a cui affidare il main event senza troppi patemi in qualsiasi occasione utile è stata decisamente sottostimata sia dai fans che dalla federazione. Roman Reigns e Seth Rollins, per quanto eccellenti performer, non hanno il carisma e lo starpower in grado di poter colmare il vuoto lasciato da Cena, che a sua volta aveva raccolto la pesante eredità di Lesnar e prima di lui Rock, Austin e così via.
La mancanza di un punto saldo, di una stella polare, ha portato inesorabilmente ad uno sgretolamento lento e progressivo, complice una incapacità (giustificata e fisiologica) da parte di Vince McMahon di riuscire a stare al passo coi tempi e dunque di creare e gestire nuove star, pensando di possedere ancora la formula magica per poter far funzionare tutto, senza rendersi conto di non trovarsi più in un mondo in cui la magia funzioni. Il mago di Oz si è trovato proiettato in una metropoli, lontano da leoni senza coraggio e scimmie volanti: nel tentativo di poter fermare un tir con la bacchetta, Vince è stato investito perdendo senno e direzione. Intendiamoci bene: chiunque a 75 anni, dopo aver creato un’azienda multimiliardaria e sopravvivendo a varie bufere, mal sopporterebbe l’idea di essere stato raggiunto dal tempo e dalla senilità, dunque il mio non vuole essere un inadeguato giudizio ma solo l’analisi su un dato di fatto.
La WWE, in questo momento, fintamente ammette di avere un problema correndo sempre a soluzioni che si rivelano, purtroppo, palliativi: Corbin vituperato da tutti i McMahon, il ritorno dei pyros, una nuova scenografia (fighissima, occorre dirlo), Bishoff ed Heyman in ruoli centrali dal punto di vista creativo, almeno sulla carta. La verità è che il problema della WWE risiede nel suo vertice, nel suo successo unico e planetario e nell’impossibilità genetica nel potere ammettere che il demiurgo del successo di questo brand possa anche essere il germe in grado di indebolirne le fondamenta. I fatti gli hanno sempre dato ragione…sino ad ora.
La AEW ha qualcosa che la WWE non può più avere: la possibilità di iniziare. Nuovo brand, nuovi talenti, nuovo nome, senza storia e solo con prospettive: la WWE è un dirigente affermato, mentre la AEW uno stagista affamato ed ambizioso, le energie possedute da queste due categorie non sono minimamente paragonabili. Inoltre, il pubblico è e sarà sempre portato a sostenere Davide contro Golia, a prescindere dalle intenzioni benevole o meno del piccolo ma scaltro principe: la WWE deve essere consapevole di questa situazione endemica, senza lasciarsi prendere dal panico e senza fare altri errori marchiani che, oggettivamente, potrebbero costargli soldi e partnership molto importanti.
La consapevolezza di avere un problema profondo, e la volontà di affrontarlo in modo serio e coscienzioso potrebbero riportare la WWE a fornire un prodotto di qualità. L’idea di voler rifuggire dal pro-wrestling nel momento in cui quest’ultimo sta tornando ad essere figo dopo anni di oblio mediatico mi sembra un’ultima, folle deviazione da un percorso di cura e recupero, un’ulteriore bugia da voler rendere reale a tutti i costi per non ammettere la propria inferiorità attuale o meglio, la propria mancanza di volontà nel volersi mettere in gioco nello stesso ambito della propria concorrenza. Le parole e le dichiarazioni di PR raccontano una storia totalmente distopica rispetto allo status quo.
Ansioso di sentire la vostra…io mi sento già meglio!