Come ho avuto modo di scrivere diffusamente la scorsa settimana, la WWE ha affrontato e sta ancora affrontando uno dei periodi di transizione più complicati della sua lunga storia: tanti errori sono stati fatti e tanti ancora ne verranno, ma difficilmente si potrà toccare un punto più basso rispetto a quello sfiorato con l’ondata di licenziamenti. Ed è proprio da uno di questi licenziamenti che è necessario partire.

La reazione di Drake Maverick al licenziamento è stata qualcosa di reale, straziante, commuovente per certi versi: un uomo fragile, distrutto da una notizia tanto inaspettata quanto difficile da digerire, un vero e proprio pugno nel nostro stomaco emozionale. Un messaggio d’amore per certi versi.

Il video di DM è stato un ultimo, disperato tentativo di riconciliazione con una ragazza un po’ stronzetta che lo aveva appena scaricato, con tanto di maglia richiamante i bei momenti passati assieme e tanti, tanti tasti emotivi toccati. Se questo video non vi ha fatto tremendamente empatizzare con questo ultimate underdog, credo proprio che la vostra vita sia costellata di bidoni della spazzatura al posto di organi interni e fruttini a colazione e cena. Ma che percorso è stato quello di Maverick? Davvero la WWE conta così tanto per lui?

Entriamo nella nostra DeLorean DMC-12 e facciamo un piccolo passo indietro, nel 2013. La TNA non è più quel bimbo prodigio in cui sono riposte le speranze di molti fan di wrestling, ma continua in modo altalenante a produrre qualcosa di veramente buono di tanto in tanto. Una di quelle cose buone, è un esperimento: uno dei pochi riusciti, oserei dire.

British Bootcamp è sostanzialmente un mini reality di sei episodi, dove quattro wrestlers (in realtà i contendenti erano tre, Rockstar Spud – Drake Maverick-, Marty Scurrl e le Blossom Twins, due piacenti gemelle lottatrici) si giocano l’ingresso nell’Olimpo del Main Roster TNA: supervisori di questi talenti sono Rollerball Rocco, celeberrimo wrestler britannico militante negli anni ’70 ed ’80 in NJPW come Black Tiger (nemesi di Tiger Mask) e Dixie Carter, allora presidentessa della federazione nota principalmente per capire poco di affari ed ancor meno di wrestling. Un format semplice, diretto, simpatico.

Nel corso di questi sei episodi le personalità di questi quattro lottatori emergono pian piano e, con buona pace di Marty Scurrl che all’epoca interpretava un banalissimo babyface festaiolo trasudante genericità, la star dello show diventa in modo immediato Rockstar Spud: nonostante la corporatura minuta in senso assoluto, figuriamoci per un wrestler (1,63 per 55 kg) il suo ego e la sua presunzione inizialmente indispongono giudici e concorrenti, tuttavia nella fase finale dello show trova passione, determinazione ed umiltà vincendo il prestigioso contratto con la TNA, entrando di diritto nel main roster. Un percorso abbastanza scontato ma comunque gradevole, un outcome premiante ed un riconoscimento di un potenziale in grado, probabilmente, di trascendere l’azione sul quadrato.

Si, perché come wrestler il buon Spud è estremamente dotato come tempi e mimica, ma la stazza ed un parco mosse buono ma non all’altezza, che so, di un Amazing Red, lo fanno immediatamente sparire nel marasma del midcarding, sino ad emergere ma in un’altra dimensione. Prima come minion di Dixie Carter versione Zia cattivona, poi come spalla perfetta per EC3 all’apice della sua motivazione, Spud eccelle, divenendo iconico con i suoi completi stravaganti ed assurgendo ad uno status di manager con bollino blu, arte oramai perduta in questo wrestling così lontano da storie dirette ed old school. Il suo livello di eccellenza raggiunge tali vette che la WWE non può non metterlo sotto contratto, e di qui come spesso accade arrivano i problemi.

Ottimo come GM di 205 live ma vertice di un programma praticamente non seguito, nel main roster viene stranamente affiancato agli AOP ed il suo highlight sarà farsi la pipì addosso, mentre probabilmente il punto più alto verrà toccato agli albori del 24/7 Title, con dei siparietti niente male effettuati con la moglie ed R-Truth: segmenti wrestling comedy che fanno ridere, una vera e propria chimera. Da qui il non utilizzo, ed il licenziamento.

Arriviamo ad oggi, ed a seguito della notifica di licenziamento Drake Maverick è comunque uno degli otto contendenti per il Titolo Cruiser: non solo, ma è stato fatto anche un video package per la sua “ultima corsa” con tanto di segmento backstage. Tutto un work dunque? Onestamente, non credo.

Se di work si trattasse sin dal principio mi verrebbe da fare due considerazioni: la prima è che inserire un licenziamento “work” in un nugolo di licenziamenti reali sarebbe da carogne vere, da girone infernale; la seconda è che l’interpretazione di Maverick andrebbe segnalata per un Oscar o un Golden Globe in modo immediato. Tuttavia ciò che inizia come shoot, spesso può evolversi in work. Qualcuno ha detto Edge e Matt Hardy?

Credo che l’affezione sincera mostrata verso la WWE in quel videomessaggio abbia fatto breccia non solo nei fans, ma anche nella dirigenza che ha visto non solo grande lealtà e abnegazione, ma anche un’opportunità. Se il titolo Cruiser fosse vinto, che so, da Kushida non sarebbe una notiziona e non vi sarebbe una backstory in grado di elevare titolo e contendente.

Nel caso in cui Drake Maverick dovesse vincere e dunque conservare anche il proprio posto in WWE, la storia dell’ultimate underdog sarebbe completa, ed i fan almeno per un breve periodo presterebbero maggiore attenzione sia al performer che al Titolo, conseguentemente alla categoria. Un’occasione nata da una disgrazia per certi versi, ma comunque un’occasione: sarebbe molto bello poter assaporare questo lieto fine, dove tutti nessuno escluso ci guadagnerebbero comunque qualcosa, fosse anche solo un minimo di interesse.

Lascio dunque la parola a voi: work, shoot o ibrido?