Tracotanti, arroganti, boriosi, pomposi, fin troppo sicuri di sé, lo squallore, la mediocrità e la monotonia dello stile di vita americano perennemente a confronto con la bellezza, lo splendore degli usi e dei costumi del proprio paese d’origine; magari in altri casi un tantino meno esaltati, ma semplicemente orgogliosi al midollo del loro paese.
Stiamo parlando dei cosiddetti “Foreign Fanatics”, i fanatici stranieri imperversati per anni nel mondo WWE e di cui oggi si ha ancora qualche sporadica traccia.
Su tutti Alberto Del Rio, il quale, messe da parte le super macchine di lusso e le esaltate presentazioni di Ricardo Rodriguez, non può oggi fare a meno dell’inseparabile bandiera messicana sbandierata ai quattro venti tra i fischi di disapprovazione del pubblico, arrivando, al massimo dell’arroganza, persino ad imporre all’announcer Lillian Garcia la sua presentazione esclusivamente in lingua spagnola. Causa una commozione cerebrale, Del Rio è mancato per un po’ all’appello, ma tranquilli che i colori del Messico saranno sempre in viaggio con lui.
Attualmente, però, laddove il fanatismo straniero non attira più come un tempo, le esternazioni di Del Rio è come se passassero un po’ in secondo piano.
Al contrario, The Real Americans (Jack Swagger & Antonio Cesaro) ed il manager Zeb Colter, un veterano del Vietnam, sono invece patrioti fin troppo fieri di se stessi, xenofobi e razzisti; quando poi Swagger sembra un cognome dalle chiari origini tedesche, mentre Cesaro è svizzero naturalizzato americano, quindi proprio USA al 100% non direi!
Eppure, c’è stato un tempo in cui i “foreign fanatics” si comportavano da padroni assoluti animando la categoria heel e stiamo parlando dell’indimenticabile Era Gimmick, laddove di stranieri invasori contrapposti a patrioti americani ce ne sono stati a bizzeffe ed è stata una consuetudine che solo in sporadiche occasioni, negli ultimi tempi, si è mantenuta, non quindi con la stessa frequenza con cui, tra gli anni ’80 e ’90, si è stati soliti assistere alle invasioni provenienti da tutti i paesi del mondo, dal vicino Canada al lontano Giappone, ma anche dalla Scozia alla Finlandia, dalla Russia al Medio Oriente, non c’è stata nazione che non si sia introdotta nel mondo WWE.
La capitolazione, dopo ben cinque anni di regno da WWE Champion, di Bob Backlund per mano dell’iraniano The Iron Sheik, nel lontano ’83, fu un enorme shock per il mondo intero, soprattutto per come la sconfitta stessa maturò: Sheik che chiude Backlund nella Camel Clutch, Bob che cerca di resistere ma frattanto il suo manager Arnold Skaaland getta la spugna, decretando la vittoria dello sceicco di ferro ed il clamoroso passaggio del titolo.
Fortuna volle che, spentasi nell’83 la stella di Backlund, ne sorgesse, un anno dopo, un’altra, ancor oggi intramontabile, quella dell’Immortal Hulk Hogan, che proprio nell’84 sconfisse Sheik iniziando un regno da campione che durerà ben quattro anni, spezzato solo da Andre The Giant nell’88.
E sarà proprio il mitico Hogan, in qualità di strenuo difensore del suo paese, a dover difendere i colori della sua bandiera da nuovi nemici d’oltremanica.
Il sovietico Nikolai Volkoff fu la rievocazione vivente della guerra fredda USA-URSS, come singolo non ebbe molta fortuna, spazzato facilmente via da Hogan, eppure, in tag con Iron Sheik, formò una coppia formidabile e ben affiatata che ebbe modo persino di conquistare le tag team belts contro gli idoli di casa, gli US Express (Barry Windham & Mike Rotundo) nella magica notte della primissima edizione di Wrestlemania (1985). Ritiratosi Sheik dalla WWE nell’87, Volkoff cambiò partner e subentrò così Boris Zhukov in quello che fu il tag denominato The Bolsheviks, ma senza mai sorpassare la soglia del lowcarding e soprattutto senza mai agguantare le cinture di coppia così come invece accadde con Sheik, fino allo split del ’90 ed alla cittadinanza americana richiesta ed ottenuta dallo stesso Volkoff, raggiunti ormai i tempi della storica distensione. I russi dal colbacco e dalla giubba rossa non sono che un nostalgico ricordo, ma in tempi recenti un tale Vladimir Kozlov, un lungagnone di legno e senz’alcun talento, rappresentando la Russia moderna, ha provato a dire la sua pur non andando oltre le tag team belts vinte (per caso) con Santino Marella (il che è quanto dire).
Ma sarà proprio la cittadinanza concessa a Volkoff a spingere colui che per tanti anni era stato un fiero americano, un GI Joe, un difensore della patria, a voltare le spalle al suo paese non accettando che un russo divenisse amico degli americani: Sgt. Slaughter. Il sergente di ferro non era proprio un “foreign fanatic”, essendo americano di nascita, ma in un certo senso lo divenne nel girare le spalle alla sua patria e nello schierarsi clamorosamente dalla parte dell’Iraq, in piena guerra del golfo tra gli USA ed il paese del raìs Saddam Hussein; ed in effetti non furono pochi coloro che scambiarono Gen. Adnan, il manager di Slaughter, per lo stesso Hussein, vista, diciamo, la somiglianza! E come nell’83 The Iron Sheik scandalizzò il mondo battendo Bob Backlund, così Slaughter sconvolse altrettanto la WWE battendo il campione in carica Ultimate Warrior alla Royal Rumble ’91, seppur grazie all’interferenza di “Macho-King” Randy Savage: un brivido lungo la schiena dei fans di Warrior ed uno stop al suo regno brusco quanto inatteso.
Appena qualche mese dopo, Slaughter perse il titolo, a Wrestlemania 7, contro Hulk Hogan, ma bastò quella vittoria contro Warrior a far di sé il personaggio del momento. Alleatosi all’ex rivale The Iron Sheik, divenuto Col. Mustafa, Slaughter formò con quest’ultimo ed Adnan il famigerato Triangle of Terror, a cui posero fine Hogan e Warrior nell’Handicap Match di Summerslam ’91, arbitrato dal debuttante Sid Justice. Raccolta l’amara sconfitta, abbandonato dai suoi alleati e ritiratosi a riflettere, Slaughter decise di tornare a difendere il suo paese scegliendosi stavolta come alleato il patriota Hacksaw Jim Duggan, suo ex nemico giurato, al cui fianco combatterà sino al ritiro, avvenuto nel ’92; frattanto Mustafa ed Adnan, relegati persino al di sotto della lowcarding, scompariranno di lì a breve.
Lo scozzese Rowdy Roddy Piper è ancor oggi giustamente annoverato tra i foreign fanatics di maggior successo e tra i più carismatici; grande rivale di Hogan, tentò senza successo di strappargli il titolo a Wrestling Classic, per poi allearsi con Mr. Wonderful Paul Ondorff contro il tag Hogan-Mr.T nella notte di Wrestlemania I, a scortarli sul ring c’era Cowboy Bob Orton, il papà di Randy, ma le cose andarono storte, Piper colpì Ondorff per errore e per Hogan fu facile ottenere lo schienamento. Ma il personaggio Piper andò avanti con la sua incredibile arroganza fino ad avere addirittura uno show tutto suo, il Piper’s Pit, il primo talk show per eccellenza trasportato sul ring e come non ricordarsi della mitica noce di cocco fracassata sulla testa del malcapitato “Superfly” Jimmy Snuka, e di tante altre risse scatenate dal caciarone Hot Rod e dalla sua aggressività dapprima verbale e poi fisica. Uscito e rientrato più volte, Piper è stato un’autentica leggenda in casa McMahon, pur vincendo solo un titolo di Campione Intercontinentale le cinture di coppia con l’amico-rivale Ric Flair, ma anche quando è passato tra le fila dei face, non ha mai perso la sua verve e quel suo modo assaltante di gridarti in faccia la verità in tutto il suo peso; e pur sempre vero che, sulla scia del suo Piper’s Pit, si son mossi molti altri show-cloni quali lo Snake’s Pit di Jake “The Snake” Roberts o ancora il Flowers Shop di “Adorable” Adrian Adonis, che ebbe un feud proprio con Piper culminato in un big match a Wrestlemania 3.
Rievocando la rivalità bellica del secondo conflitto mondiale, i giapponesi non sono mai mancati alla WWE, a partire da Mr. Fuji che, sia con Prof. Tanaka che con Masa Saito, ha più volte conquistato le tag team belts tra l’ira generale; persino come manager, Mr. Fuji non ha mancato nel farsi fortemente disprezzare dal pubblico americano, manager dei Demolition (Ax & Smash), da lui portati alle cinture di coppia, ma anche di Magnificent Muraco & Cowboy Bob Orton, dei Powers of Pain (Warlord & Barbarian) e degli Orient-Express (Tanaka & Sato/Kato). Proprio con gli Orient-Express si dice che Fuji avrebbe dovuto iniziare un feud coi Demolition, suoi ex clienti, per le cinture di coppia, ma l’heel turn di Ax & Smash e l’approdo dei Legion of Doom (Hawk & Animal) cambiarono poi le carte in tavole.
Ma è stato soprattutto il mastodontico Yokozuna, samoano di nascita ma giapponese per storyline, a regalargli le migliori soddisfazioni; il gigante Yokozuna, sfruttando la sua mole e la sua incredibile forza bruta, conquista per ben due volte il WWE Championship, battendo leggende del calibro di Bret Hart ed Hulk Hogan, ma anche le tag team belts con Owen Hart nella notte di Wrestlemania 11. E quando il buon Yoko dirà addio alle scene nel ’96, ben presto sparirà anche lui, chiudendo la sua carriera non più da avversario ma da alleato, visto che, passato Yokozuna tra i face, Fuji, piuttosto che quella giapponese, porterà con sé la bandiera americana, tanto per rendere omaggio al suo paese d’adozione.
Il Canada è stato più che foriero, col tempo, di foreign fanatics, ognuno con la sua baldanza ed il proprio orgoglio e senz’alcuna distinzione tra anglofoni e francofoni: The Hart Foundation ( Bret “Hitman” Hart & Jim “The Anvil” Neidhart); Faboulous Rougeau Brothers (Jacques & Raymond); “The Canada’s Strongest Man” Dino Bravo ed il suo amico ed alleato Canadian Earthquake (poi solo Earthquake); The Mountie Jacques Rougeau, di cui ricordiamo il feud con Big Boss Man ed il loro famoso Jailhouse Match di Summerslam ’91, e la conquista dell’IC title contro Bret Hart in un house show che precedette, di soli due giorni, la Royal Rumble, in cui Mountie perse il titolo contro Piper; The Quebecers (Jacques & Pierre), che vinsero le loro prime tag team belts contro gli all-americans Steiner Brothers (Rick & Scott); i recenti La Resistance (Renee Dupree, Robert Conway, Sylvan Grenier) ed Un-Americans (Test, Christian, Lance Storm), coi quali l’odio canadese verso gli USA arrivò al culmine.
Casi curiosi di fanatismo straniero sono stati, di certo, il finlandese Ludvig Borga, la cui carriera tra il ’93 ed il ’94 non decollò, come previsto, a causa di problemi fisici e caratteriali, nonostante le buone premesse, e l’arabo Mohammed Hassan ed il suo manager Daivari, contro i quali si scomodò persino Hulk Hogan, malmenandoli a Wrestlemania 21 durante un’intervista sul ring e battendoli, in tag con Shawn Michaels, a Backlash; per la cronaca Hassan sparì definitivamente dopo un match con Undertaker a causa delle ripercussioni derivanti dall’11 settembre e dall’odio degli integralisti islamici, mentre invece Daivari fece da manager a Great Khali, venendo poi sostituito da Rajin Singh e sparendo così anche lui.
Nessuno però si dimentichi la madrepatria inglese, chi meglio di sir William Regal, un lord d’altri tempi, che ha saputo fare la sua figura conquistando un bel po’ di cinture (IC belt, European belt, tag team belt), anche se più volte aiutato dal suo “magico” tirapugni, oltre che calarsi nel ruolo di WWE Commissioner, oltre che tradire la fiducia di Vince McMahon per l’Alliance ed oltre che essere costretto a baciare il deretano di Vince, nel senso letterale della parola, solo per farsi riammettere nella federazione. Aggiungiamo anche The British Bulldog, l’uomo dalla running powerslam più potente della WWE, con tanto di bandiera britannica spiegata a tutta forza non appena turnò heel nel ’95. E perché no anche la stable della Hart Foundation, fieri rappresentati del Canada anglofono, sebbene tutti ormai votati heel.
Oggi come oggi, il “foreign fanatic” è una tematica che sembra non attiri più come un tempo, eppure, nessuno creda che siano scomparsi per sempre: chissà che un giorno non rispuntino fuori. Anzi, magari esistono già, sotto altre sembianze, in attesa di un feud, di un patriota americano che si opponga loro o di qualche altra buona occasione per far valere ancora l’orgoglio delle proprie origini e lo splendore della loro terra (Alex Rusev?). Chi vivrà vedrà.
Alberto “The Crow” Ferrero