Era lontano dalle luci dei riflettori. Non era una Superstar eccezionale. Non era uno di quelli che ti ricordi per i grandi incontri di fronte a migliaia di persone. Nemmeno era uno di quei lottatori indipendenti che le Major dovrebbero portarsi a casa perché irresistibile per il pubblico. Era un giovane lottatore, qualche volta un giovane Manager, che calcava i Ring americani e non solo, per cercare di portarsi a casa il giusto con un lavoro che era, come nella maggior parte dei casi, una grande passione.
Era un bravo ragazzo. Un grande amico. Era uno che camminava per i Backstage catturando qualsiasi dettaglio per cercare di migliorarsi. Seguiva ogni consiglio, di anziani e giovani compagni. Amava i grandi lottatori Heel, le grandi Gimmick classiche, da Ric Flair a Gorgeous George. Si impegnava a riflettere nei suoi promo la personalità che avrebbe voluto avere davvero.
La vita però è non è uno specchio del tuo lavoro, stava riuscendo a realizzare il suo sogno, ma da una parte all’altra della sua anima c’era un buco incolmabile. Una di quelle voragini che ti fanno sentire diverso dagli altri, sfortunato, impresentabile. Il Ring della Windy City Pro Wrestling e la Battle of Belts, avevano dato il via al suo tentativo di vincere gli spettri della morte, che dopo averlo accompagnato colpendolo trasversalmente, ha trovato anche lui.
Non servì a troppo una carriera di anni fra Chikara, nella quale metteva in scena le sue grandi qualità comiche nascondendo il suo dolore, Ring of Honor e altre compagnie. Non gli servì a niente cimentarsi in tutto quello che un servo del Wrestling può fare, dal combattere al commentare, dall’accompagnare al Ring allo scrivere. Non gli servì niente, a niente.
Gli servì a poco anche una pausa durata quattordici mesi. Quattordici grandi mattoni sui quali cercò di ricostruire la sua vita e la sua carriera, dopo che un male incredibilmente distruttivo lo aveva colpito. Disturbo bipolare. A quanto disse fu l’esperienza più terrificante della sua vita. Più terrificante di ogni sconfitta sul quadrato, di ogni infortunio. Non si può scappare da certe cose, non si può dire basta. Se non in un modo.
Si dimenticò di tutti Larry Sweeney. Si dimenticò di coloro che lo avevano aiutato, ed avrebbero potuto farlo ancora. Si dimenticò di Chris Hero, di Claudio Castagnoli, di Mike Quanckenbush, di Buddy Rose, di ogni suo mentore, di ogni suo allenatore. Decise di andarsene da solo, ma in scena. In Ring. Ebbe forse anche il tempo di pensare mentre la vita lasciava il suo corpo. Di pensare alla sua famiglia, a sua madre, a suo padre, ai suoi fratelli. Pensò magari all’ultimo momento che tutto poteva essere sistemato. Ma era troppo tardi. La sua testa prese la decisione prima ancora del suo cuore. Il suo cervello aveva lavorato per anni ormai, meditando l’unica soluzione dei problemi: la fine.
Lo trovarono appeso ad un Ring Alexander K. Whybrow. Morì dove aveva deciso di vivere, nel quadrato. Una corda segnava il confine fra la sua vita e la sua morte. Un Ring fu il suo primo sepolcro. Lui era un po’ fuori ed un po’ dentro, come nella sua vita travagliata, come nei suoi pensieri un po’ positivi ed un po’ negativi. Morì quel giorno Larry Sweeney, un ragazzo di trent’anni. Un ragazzo con una vita davanti, nato con un cervello troppo vecchio, troppo fastidioso, troppo crudele. Nacque con un cervello che fu l’assassino del suo stesso padrone. E non morì una stella. Non morì un grande lottatore. Morì uno che, non solo per lui ma anche per noi, saliva sul Ring, si metteva in gioco, metteva le mani avanti. Morì un giovane Wrestler, e come Eddie Guerrero, Owen Hart e Roddy Piper, noi abbiamo il dovere di ricordarlo.