Brian Pillman è morto. E’ morto il 5 Ottobre del 1997, in una stanza d’albergo a Bloomington, in Minnesota. Se n’è andato dopo un Run In durato trentacinque anni, fra gioie e dolori di una vita sollevata e calpestata da se stesso e da chi gli stava intorno. Se n’è andato senza avvisare e senza essere avvisato. E’ morto, in un giorno nel quale non c’era il sole sopra la sua testa, lo stesso sole che in poche occasioni aveva brillato e che sempre, in ogni momento di assenza, aveva cercato di bruciare ogni sua possibilità di vittoria. Al culmine di tutto, Brian ha dovuto cedere, incalzato da un astro definito da civiltà e culture come un dio, un dio vero però, capace di scaldare e raffreddare, di dare e togliere. In un Climax di incertezza mista a felicità apparente, velato da una depressione perenne e da una voce tanto particolare quanto simbolica, Brian ha finito la sua corsa, tornando nel Backstage acclamato dall’intorno, giusto fino a quando le tende dietro di lui non si sono chiuse e le ombre non hanno spento le luci dell’arena per sempre.
Ma non è cosi facile spiegare la sinusoide che ha attraversato nel suo cammino. Non è cosi facile descrivere l’inizio e la fine di una gara cominciata ai piedi di una montagna altissima, scalata senza un padre, morto quando lui era in fasce. Ogni gancio era distante dall’altro ed i primi trenta, o forse più, lo hanno lasciato appeso ad un filo, sospeso, già all’età di tre anni, fra la vita e la morte. Quello era il segno. Quelle trenta operazioni fatte da bambino per un carcinoma alla gola, o qualcosa di simile, lo hanno segnato nell’anima e nella voce, dandogli si un segno riconoscibile all’istante, ma ricordandogli anche quanto presto sia cominciata la sua lotta, altro che i Ring che avrebbe calcato anni avanti, altro che i Match di Wrestling. Ma questo era Brian, questa era la sua vita, nonostante nel suo caso, come in tanti, troppi casi, la parola cancro e la parola bambino non dovrebbero mai esistere nella stessa frase.
Quella montagna però non era che la prima. Dopo la lotta per la vita, arrivò la lotta per la sopravvivenza adolescenziale, aiutato da una madre che lo spinse fino alla High School, proteggendolo dalle vie oscure che possono portare all’oblio non solo tuo, ma anche di altre persone innocenti. E cosi, aiutato anche dal desiderio di diventare un giocatore di Football americano, Brian scala i Ranking del suo essere, proponendosi prepotentemente come giocatore di livello al College, nella Miami University di Oxford, Ohio. Era molto piccolo, poco forte, dicevano, eppure per due anni consecutivi ottenne il titolo di All American, raggiungendo anche un Record per quanto riguarda i Takle, un qualcosa di molto importante per un difensore.
In una fase di vita positiva, Brian guarda avanti, guarda all’NFL. Ci prova, nel Draft del 1984, ma non viene scelto da nessuna squadra. Il duro colpo non lo abbatte e cerca quindi alloggio nella squadra di casa, i Cincinnati Bengals, che però lo tagliano nell’ultima fase della Pre Season. Quella che sembra una discesa costante si rivela una valle e di fronte, adesso, si presenta una nuova cima. Brian infatti, si muove con un ulteriore tentativo nei Bills di Buffalo, ma anche in questo caso viene tagliato nella in Pre Season. Nonostante la salita ripida ed irta di pericoli, non abbandona il sogno di diventare un giocatore professionista e si accasa negli Stampeders, a Calgari, franchigia della Canadian Football League, dove gioca, e bene.
Sembrerebbe tutto nel suo posto adesso. Forse le difficili circostanze sono finite, forse qualcosa gli sta venendo restituito dal destino. Ma no, come nella più tragica delle storie, Brian si infortuna gravemente alla caviglia ed è costretto ad abbandonare il gioco del Football, per sempre. Cerca conforto in qualcuno nel quale ha fiducia, uno dei suoi allenatori in Canada, che gli fa una proposta allettante quando strana: darsi al Professional Wrestling. Brian è un po’ reticente, ma alla fine decide di accettare, perché quando una strada è sbarrata da un destino a forma di diga, bisogna soltanto aspettare che la piena passi ed uno spiraglio si apra nel drenaggio del troppo pieno. Brian aspetta ed al momento giusto ci si infila come sempre, con impegno e speranza.
Dall’altra parte della diga trova un signore che si chiama Stu Hart e che comincia ad allenarlo alla sua maniera. Nonostante l’ottanta per cento degli uomini che entravano nel Dungeon abbandonassero dopo poche settimane, se non giorni, lui resiste. Come aveva sempre fatto nella sua vita riesce a strappare l’appoggio e il consenso, meritandosi l’immediato Push appena finita la fase primaria di allenamenti. E’ qui che arrivano i primi successi nel mondo del Wrestling, è qui, che il buon Brian, comincerà a farsi un nome.
Il resto è storia. La National Wrestling Alliance, la World Championship Wrestling, la Extreme Championship Wrestling ed infine, la World Wrestling Federation. The Loose Cannon, Gimmick che lo ha portato più di tutte alla ribalta e che ha sfruttato come nessuna, tutte le sue qualità di intrattenitore, di uomo fuori dal comune. Un malato mentale dal brutto carattere. Un bastardo vero, senza filtro fra cervello e lingua, senza paura di niente, nemmeno della fine della storia.
Fu un parallelo incredibilmente preciso. Un parallelo che ha rappresentato i grandi successi di Brian Pillman sul Ring, e le grandi sconfitte fuori. La gioia per i suoi figli e la sua famiglia, e la sempre celata depressione che lo hanno portato a quelle abitudini che hanno scatenato in lui il mostro. Sembrava fortissimo quando andava in TV, era debole nell’anima, nel cuore e nella mente. Quel dio luminoso che già in tante occasioni aveva cercato prima di azzopparlo e poi di finirlo, non perse l’occasione e quando era più debole lo finì. Alle sue spalle venne colpito, cadde senza reazione. Non sapeva, non poteva sapere, anche se nell’ultimo momento avrà immaginato. Non poteva nemmeno immaginare che quei cinque figli che lo aspettavano a casa insieme a Melanie, sarebbero diventati sei, ma che quella nuova vita, come in un macabro gioco di ruoli, sarebbe costata la sua.
Nessuno immaginava, in realtà, almeno fino a quando Jim Cornette non chiamò in quell’hotel, perché Brian non arrivava. Dude Love lo aspettava per un Match, per combattere, ma non sapeva che un avversario molto più forte ed insidioso lo aveva già abbattuto, sconfitto, schienato per sempre.
Brian Pillman è morto. E’ morto il 5 Ottobre del 1997, in a una stanza d’albergo a Bloomington, Minnesota. Sospeso in aria fra sconfitta e vittoria, ritirandosi dalla vita, senza annunciarlo, senza promo d’addio, senza saluti, senza baci. Vittima della sua stessa sfiducia in se stesso, vittima di quel grande sogno mai realizzato. Vittima di una vita troppo complicata ed intensa, per essere vissuta a lungo. La batteria è finita, dopo mille cariche, dopo centinaia di cortocircuiti, dopo un solo colpo ben assestato, dritto al cuore.