Che la divisione femminile avesse bisogno di altri stimoli era sotto gli occhi di tutti. Che la categoria necessitasse di altri “propulsori” alle carriere, oltre al titolo massimo, era una ovvietà sottolineata da anni ormai. E, purtroppo, le cinture di coppia non sono state proficue in questo; I vari Tag Team che si sono avvicendati al trono non hanno mai dato lustro alle cinture, essendo molti di questi improvvisati, o frutto di assemblaggi dell’ultimo momento. Poche coppie sono nate come tali, e quindi credibili a tal punto da dare prestigio a quelle cinture. La maggior parte erano unioni di fortuna, talvolta nate per semplici pretesti, e mai capaci dunque di creare magia sul ring nei match con chiunque aspirasse ai titoli di coppi. Forse l’unica squadra ad aver reso importanti queste cinture sono le campionesse in carica. Va detto però che Cargill e Bianca attirano su di sé le attenzioni dei fan più per il loro star power, e le speculazioni su una loro possibile divisione futura, più che per i match o le rivalità che hanno per oggetto i trofei in loro possesso. 

Come scrivevo all’inizio, quindi, è mancata per troppo tempo una cintura in grado di lanciare un atleta verso vette più alte. Un titolo secondario, però, non crea solo futuri campioni; Talvolta è capitato che i vari ex campioni intercontinentali maschili, o ex campioni US, non siano riusciti ad affermarsi come volti della federazione, riuscendo però a consacrarsi come dignitosissimi midcarder. Difatti le cinture “accessorie” hanno un compito latente, meno palese, e cioè quello di creare lo zoccolo duro degli show, definendo quella frangia di lottatori che costituiranno lo scheletro del brand. Nè jobber, nè Main eventer. Una categoria di atleti a cui si fa poco cenno, ma che sono altrettanto importanti nell’economia di una federazione. Per cui l’annuncio che sarebbe stato consegnato un titolo secondario per le donne, chiamato titolo US femminile, non poteva che essere accolto col favore del pubblico. Dando un occhiata alle varie partecipanti mi sono fatto una vaga idea sulle favorite, individuando la wrestler per la quale faccio il mio personale tifo, mantenendo una convinzione granitica: Ce ne sono alcune che non dovrebbero affatto vincerlo.

Ovviamente non per demerito, ma perché non sarebbero utili al titolo, e il titolo a loro. Parlo di Bianca Belair, o di Bayley ad esempio. Entrambe sono affermate, oltrechè ex pluricampionesse femminili. Se il titolo va a loro, la vittoria non farebbe altro che confermare la loro bravura. E il titolo si trasformerebbe in mero orpello da passeggio, in attesa di essere ceduto per mirare a più importanti traguardi. Mentre, se a vincerlo fosse una Chelsea Green, o Piper Niven, o ancora Michin, tale trofeo potrebbe definitivamente consacrare le loro carriere. E quanto più una cintura innalza il valore di una superstar, tanto più si alza l’importanza che quella cintura riveste. Certo che, metterlo alla vita di una lottatrice già affermata, ne aumenterebbe il blasone. Tuttavia non sarebbe utile come dovrebbe, perché si rivelerebbe l’ennesimo riconoscimento (una sorta di medaglia d’argento diciamo) alla carriera di chi, infondo, di bisogno non ne avrebbe neppure tanto. Anzi, suonerebbe come una mera retrocessione. Differente è quando urge rialzare il prestigio di un titolo secondario, e si ricorre ad un lottatore di primo piano che, con le sue prestazioni, e il suo carisma, può ottenerne la “riqualificazione”. Questa cintura di campionessa femminile degli Stati Uniti ha il preciso compito di aiutare coloro che, per via della spietata concorrenza e dell’esiguo numero di riconoscimenti, faticano ad imporsi come Top name. Una solida rampa di lancio che, se usata come si dovrebbe, può colmare il vuoto lasciato da storyline scadenti, o da pigrizie narrative, che troppe vittime hanno mietuto. E che continuano a mietere.