Io ho sempre adorato la figura del General Manager di uno show. Forse perché, quando ho iniziato a seguire la WWE, nei primi anni duemila, i GM erano figure preponderanti negli show settimanali. La figura del GM on screen ha due effetti positivi: Rendere partecipe il pubblico dell’ organigramma, seppur “scenico”, della Compagnia. E, se usato nel modo giusto, un GM che si insinua nelle storie principali, può suscitare l’effetto di arricchirle di sfumature e contenuti. Ciò innalza considerevolmente il livello qualitativo degli show. Per cui, quando ad Adam Pearce, GM di Raw, è stato affiancato Nick Aldis, alla direzione di Smackdown, non ho potuto che gioirne. Era il chiaro segnale di un ritorno a questo format della WWE. I due, per ora, sembrano avere come obiettivo il migliorare il proprio prodotto. Alle volte scontrandosi anche, come nel caso del Draft, cercando di accaparrarsi il talento di turno. Altre, invece, in piena sintonia nel raggiungimento dell’obiettivo comune: Alzare il livello competitivo allo scopo di alzare quello qualitativo.
Quando, per un lungo periodo, la WWE sembrava volerne a fare a meno, la mancanza di una figura super-partes che concertasse gli show si faceva sentire. Non tutte le storyline si sviluppano in maniera organica. Alcune hanno bisogno di una traiettoria, tracciata se possibile da un “Capo” on screen, che dia la possibilità al pubblico di sentirsi parte dello show. Difatti il GM esprimere decisioni davanti ad un pubblico live, e a milioni di telespettatori sintonizzati da tutto il Mondo, e ciò ha la precisa funzione di coinvolgere i fan nel processo decisionale, i quali, non di rado, “convincono” con i loro cori il GM a propendere per una scelta piuttosto che un altra. Il che certamente soddisfa il tifoso che, in molte altre circostanze, apprende tali decisioni da annunci tv o per bocca degli stessi atleti. Ovvio che è sempre lo stesso pulpito a parlare, ma in due modalità ben diverse: Una direttiva, l’altra demagogica. La figura del GM deve però sottostare ad una grande legge di natura, cioè che prima o poi debba sostenere un “turn heel” (quantomeno se la sua carica dura un tempo considerevolmente lungo). Se si tratta di una piccola parentesi, magari allo scopo di riequilibrare i fronti a vantaggio del buono, sparendo dalle scene subito dopo, il GM può anche essere acclamato. Ma se ricopre il ruolo a lungo, le cose sono diverse.
Che sia da subito un heel, che lo diventi a fine carriera o che sia solo una fase di transizione, il General Manager deve potersi far odiare dal pubblico ad un certo punto della sua carriera. Teddy Long, che fu GM di Smackdown per diversi anni, e che fu un GM comprensivo ed accogliente, viene ricordato oggi più per i balletti ridicoli sulla rampa che per altro. Il beniamino del pubblico giova di un GM cattivo, in grado di dare al pubblico la sensazione che sia sempre sfavorito dalle decisioni dirigenziali, alle quali il “face” deve far fronte. Si sostanzia quella naturale solidarietà verso chi affronta le sfide dei suoi pari, e gli intralci dei suoi “superiori”. Quando invece le direttive del GM sono quasi sempre a favore del buono, e contro il cattivo, si rischia di portare in odio al pubblico tale attitudine, che finirà inesorabilmente per schierarsi dalla parte “sbagliata” della barricata. Insomma, il fan deve poter avvertire, al fine di sostenere liberamente il proprio preferito, un clima sfavorevole, arrivando quasi a credere che è proprio tale sostegno a riportare la situazione in parità. Ecco perché un GM buono ha poco senso. In una storia, citando un famoso film, il personaggio deve “o scegliere di essere buono, o vivere tanto a lungo da diventare il cattivo”.