Ci ritroviamo di nuovo qui, a piangere qualcuno che alla fine dei conti, non è molto differente da un morto eccellente, famoso, bisognoso di attenzione anche dopo il trapasso. Questa volta non parliamo, infatti, come nel più commovente dei casi di un grande nome, di una super stella. Questa volta parliamo di qualcuno che, nel bene e nel male, ha tentato invano e senza aiuti altisonanti, di scalare una montagna tanto ripida quanto pericolosa, pagandone, inesorabilmente, il prezzo.
Aveva venticinque anni è un desiderio perseguitante: il mondo del Wrestling. Si sentiva, probabilmente, sprecato a cantare e raccontare storie, si sentiva chiuso in un mondo, quello del Cabaret, che altro non dava se non soddisfazioni senza adrenalina. Un mondo che pian piano gli insegnava a rapportarsi col pubblico si, ma non gli aveva mai insegnato ad affrontare la vita rapportata alla morte. Però accettò lo stesso, consapevole e inconsapevole di ciò che stava facendo, di prendere parte ad un evento che di regolare aveva avuto soltanto un tentativo, rifiutato, decisamente rifiutato, dalla commissione atletica dell’Oklahoma. Ma lui era William Ogletree, un nome che probabilmente, diventato famoso, non avrebbe nemmeno dovuto barattare per un nome d’arte poco rappresentativo, per niente suo.
La morte però non guarda le carte. La morte non si ferma a leggere i comunicati, le storie personali. La morte sceglie, consapevole e inconsapevole, proprio come le sue vittime, chi quel giorno dovrà finire sulla lista nera, senza calcolare paure, sogni o preparazione. Ti può prendere sotto tortura come ti può prendere mentre sfoghi “orgasmicamente” la tua passione più profonda. Potrebbe reciderti le viscere, o tapparti la trachea, questa volta ha deciso di ferire il cervello. Poco conta come teletrasmetterlo, come fotografarlo, come immortalarlo.
La morte non conosce nemmeno il significato della parola “Spinebuster”, vede solo un cranio e prepara il suolo in maniera tale da dargli un colpo di frusta necessario a non tornare mai a respirare. In un secondo, che tu sia Mitsuaru Misawa o William Ogletree, tutto finisce. Qualsiasi calcolo fatto dalla culla a quel momento non ha più senso. I progetti si cancellano, i sogni si spezzano e il terrore, sperando non sia cosi terribile, ti avvolge in un velo nero e invalicabile.
Il Wrestling, purtroppo, con la morte ci va a braccetto da troppo tempo. Per la causa sono morti tanti, troppi uomini. Per un motivo o per l’altro la disciplina lascia strascichi terribili, terrorizzanti, difficilmente affrontabili. La falce è l’unica costante, l’unico parametro insostituibile, mentre decine di variabili, un numero esorbitante, portano sempre e comunque, sottoforma di cause, al decesso, al buio.
Sono contento, e devo dire parecchio, che in questa situazione, mentre metà mondo cerca di capire le cause e dare colpe, noi, il succo del nostro mondo, ci siamo tutti rispettosamente fermati al cordoglio. Tutti, in generale, abbiamo soltanto pensato a quel povero ragazzo, che magari in futuro sarebbe potuto diventare, con un po’ di fortuna, il nostro idolo, il nostro preferito. La frase ricorrente è stata risposa in pace, segno che la nostra comunità impara, seppur pian piano, a rispettare chiunque si affacci su un Ring, che questo sappia bene o sappia a metà ciò che sta facendo. Lasciamo i giudizi agli dei, noi, proteggiamoci e proteggiamo quelli come William.
Perché non era nessuno William Ogletree. Era un semplice individuo, figlio, fratello, nipote, amico. Come tutti. Non aveva mai vinto niente, non aveva fatto niente di leggendario, a mala pena era un Wrestler. Ma dobbiamo aggiungerlo di diritto nella nostra personale arca della gloria, alla lista interminabile e shockante, di coloro che hanno provato a fare qualcosa anche per il nostro puro e semplice sollazzo, mettendo sul piatto un’offerta che in maniera preoccupante si sta trasformando troppo spesso in un All-In a perdere, con una mano debole, senza resti, senza una fiche, senza nemmeno la possibilità di restare seduti al tavolo: la morte.