La notizia che Vince McMahon, fondatore e principale artefice del successo della WWE, non sarebbe stato inserito nel gioco annuale dedicato alla Compagnia mi ha lasciato di stucco. Questo ostracismo alla sua figura è, seppur giustificato, il paradosso in cui la WWE si trova a barcamenarsi oggi, dovendo “pensare” ad una WWE senza associarla più al suo principale rappresentante delle ultime quattro decadi. Quando Vince ha abbandonato il timone di comando in seguito ai primi scandali che lo coinvolgevano, tutti ci siamo affrettati ad evidenziare sin da subito le differenze positive tra la sua epoca e la “nuova”. Una nuova epoca che avrebbe visto Triple H al comando del team creativo, con una presunta maggiore libertà creativa e una gestione “scevra” da capricci personali del Boss. E i lottatori in primis, subito intervistati sul cambiamento che si respirava dopo l’addio di Vince, hanno a più riprese confermato di percepire una maggiore libertà di espressione sul ring e ai microfoni. I primissimi show della nuova Era hanno evidenziato una migliore qualità sul ring e alcune licenze ai microfoni che, invero, negli anni di McMahon mancavano. Tutto sembrava pronto per la svolta epocale che avrebbe ridefinito per sempre il prodotto WWE che sino ad allora avevamo imparato a conoscere. Il problema è che ,durante questo lungo cammino, di morti sulla strada ne sono stati lasciati non pochi.

Numeri alla mano la WWE cresce ogni anno di più, raggiungendo traguardi economici qualche anno fa solo anelati. I sold out si sprecano, le visualizzazioni sui social sono esponenziali e sempre più una maggior fetta dei canali di trasmissione inizia ad occuparsi di questa disciplina. Il problema però è che non si riesce a comprendere se questo sia il frutto della società che sta cambiando, o della qualità del prodotto che va migliorando progressivamente. Perché, conti alla mano, questa espansione globale deve essere necessaria conseguenza della evoluzione positiva del wrestling, ma in realtà può anche non dipendere solo da questo. Questa diffusione ad ampio raggio del wrestling può anche essere frutto della capacità dei social di “amplificare” a dismisura gli eventi, dal “reel” divertente alla persona simpatica che gira brevi video, e che subito ricevono fama e gloria mondiale, arrivando perfino a vere rivoluzioni sociali negli Stati (memorabile la recente rivoluzione delle “api” in Arabia Saudita). Questa qualità dei social funge da cassa di risonanza, molto più dei media tradizionali, in grado di servire allo scopo della WWE: Far conoscere a più persone possibili il proprio prodotto. Il wrestling poi, in qualità di sport intrattenimento, si presta ai vari utilizzi dei social, avendo per sua natura declinazioni divertenti, atletiche e alle volte anche drammatiche, ottenendo numeri da condivisione esorbitanti. Infine il marchio WWE, associato alla gran parte dei video di wrestling in circolazione, fa il suo lavoro finale, attirando a sè le ultime attenzioni rimaste distolte.

Quindi non per forza l’attuale diffusione della WWE scaturisce dalla qualità degli show, che anzi a mio giudizio rileva grossi problemi, quanto più ad una naturale evoluzione della società e dei mezzi che questa usa per comunicare. Non mi riferisco tanto al tenore del lottato (in media decisamente più elevato rispetto a qualche anno fa, con addirittura picchi egregi in presenza di alcuni atleti), quanto più alla qualità media delle storie e ad una miopia di fondo nella scelta del futuro. Nel primo caso, esclusa la narrativa che coinvolge la Bloodline e tutta la serie di comprimari di questi 3 anni, le storyline hanno faticato ad attirare interesse, alcune rivelandosi addirittura insulse tanto da essere interrotte bruscamente poco dopo l’inizio. Ma l’aspetto che più mi preoccupa è l’apparente incapacità di questa nuova gestione di creare le stelle del futuro, cosa in cui Vince è stato maestro nel corso di quarant’anni, o di capitalizzare dei lottatori attualmente in piena tendenza. I nomi di punta di oggi sono superstar nate e già affermate nell’Era McMahon, o volti che hanno raggiunto il successo altrove. Le pietanze “home Made” invece sembrano languire in una non meglio precisata zona di mezzo. Alcuni di queste ultime sono state bruciate quasi subito, mentre altri aspettano da tempo immemore di ricevere una meritata opportunità. Questo ovviamente a discapito della qualità complessiva degli show che sì, godono di un Main Event di tutto rispetto, ma che deficitano di un midcarding credibile e di un racconto delle rivalità molte volte avvincente. Quindi il cambiamento positivo c’è stato, è indubbio, ma non ha abbracciato tutti i settori, addirittura rivelandosi peggiore quando ha interessato alcune zone della gigantesca macchina dello sport-intrattenimento di Stamford. Certo una valutazione distopica basata solo su tre anni di operato può essere azzardata, ma le avvisaglie ci sono, e non fanno certo rasserenare i cuori, non tanto sul presente roseo e ricco, quanto su un futuro, chissà se abbastanza lontano, incerto e imprevedibile.