Il Wrestling è arte spesso tramandata di padre in figlio. Sono innumerevoli gli esempi nella storia: Da Dustin Rhodes figlio di Dusty a Bret Hart figlio di Stu, da Jake Roberts figlio di “Grizzly” a Orton figlio di “Cowboy” Bob, da The Rock figlio di Rocky Jhonson a Wyatt e Bo Dallas, figli entrambi di Rotunda. La lista è immensa tanto che, nel corso di questi 40 anni in WWE, ogni tanto è venuto fuori qualche atleta dal cognome già noto, che il più delle volte non nascondeva l’illustre parentela di cui poteva fregiarsi, rivelandosi, questa scelta, spesso controproducente. Quella innata ritrosia insita nel pubblico verso chi, apparentemente senza alcun merito, si ritrova in una posizione di prestigio per puro “nepotismo”. Emblematici i cori “Die, Rocky die” rivolti al The Great One ad inizio della sua carriera quando, nel 1997, fu presentato come figlio del leggendario Rocky Jhonson. Alcuni sono riusciti a far cambiare idea ai propri detrattori nel corso degli anni. Altri, purtroppo, hanno finito per soccombere, non riuscendo mai a scrollarsi di dosso quel cognome pesante come un macigno. E di vittime di questa arma a doppio taglio ce ne sono state fin troppe.

Oggi come mai prima d’ora il wrestling mondiale è pieno zeppo di figli d’arte, che hanno “colonizzato” le principali federazioni di tutto il Mondo. I The Gunns, Brian Pillman Jr., Solo Sikoa, Dominik Mysterio, Ava Raine, HOOK e Tama Tonga per citarne solo alcuni. Nomi che vanno ad affiancare altri lottatori di seconda, quando non addirittura terza, generazione, già affermati nelle varie Compgnie. Questa “tendenza” è difficile da analizzare nel suo rapporto costi/benefici (poiché, ragionevolmente, per ogni figlio d’arte assunto, un wrestler dal cognome sconosciuto perde una opportunità), poiché servirebbe una visione d’insieme che io non pretendo di possedere. Perciò mi limito a restare fedele all’unico criterio che può ritenersi sempre valido: Se l’atleta è capace, a prescindere da come è registrato all’anagrafe, merita di stare sul ring che conta. Ma tra tutti questi nomi e intrecci “filiali”, ce n’è uno che mi colpisce più di tutti: Bron Breakker. Anche lui figlio “d’arte”, è approdato due settimane fa al roster di Smackdown dopo lunghi anni passati ad NXT. Bron, di cui auspicavo l’arrivo ai vertici il prima possibile, ha vinto in 2 secondi netti il suo secondo match nello show blu, lasciando tutti di sasso. Non è certo la durata di un match vinto ad esaltare le qualità di un atleta, ma il modo in cui la ottiene. Goldberg è diventato quello che è, non per la rapidità delle sue vittorie, ma per il modo in cui queste arrivavano. Una potenza di esecuzione che non lasciava adito a dubbi.

L’accostamento tra i due è inevitabile; Vuoi per le analogie sul ring, vuoi per il tatuaggio sul deltoide sinistro di entrambi praticamente identico, Bron è già stato con entusiasmo paragonato all’ex star della WCW. Ma in verità questo atleta assomiglia molto di  più ai suoi antenati: Di Rick Steiner ha mutuato l’esplosività e la forza fisica. Dello zio Scott la faccia tosta. Questo ragazzo ha una presenza sul ring invidiabile, ed è in grado di trasmettere una carica di adrenalina come pochi altri. Forse viene più facile accostarlo a Goldberg per il radioso avvenire  in singolo che sembra avere davanti, essendo il padre noto più per le doti di tag team partner che per la carriera da solista. Rispetto all’ex campione WCW però, oltre alle superiori capacità dialettiche, può vantare anche una “resistenza” sul quadrato di gran lunga maggiore. La mia speranza è che non creino troppe “sovrastrutture” al suo personaggio, lasciandolo il più possibile “nature”, e che non si scelga di coinvolgerlo in narrative che rischino di trascurarne le qualità principali. Irreggimentarlo sarebbe vano; Da solo troverà la via verso il successo. Magari evitandogli anche troppi “squash”, che se per Goldberg avevano una ragione nell’incapacità di quest’ultimo di rendere nelle lunghe distanze, per Bron rischiano di rivelarsi “tarpanti”. Una “bestia” così bisogna lasciarla libera di esprimersi, come un uragano. Se così si farà, e se Breakker manterrà la barra dritta, ne sentiremo parlare ancora a lungo. Magari arrivando perfino ad invertire il paragone, sostenendo che “Goldberg ha qualcosa di Bron”, e non viceversa.